Il primo capitolo di un reportage che abbiamo svolto dall’interno della compagnia nontantoprecisi, tra salute mentale, teatro puro e messa in discussione della parola.
Si chiamano “nontantoprecisi”, sono una compagnia teatrale che esiste dal 2006 e si è costituita attorno al centro diurno “La voce della luna”: la struttura semiresidenziale socio-riabilitativa che si occupa di salute mentale nell’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. La compagnia è composta da psicologi, da pazienti del centro diurno e studenti di filosofia, da semplici cittadini amanti del teatro e da tirocinanti. Nel 2012 il nucleo fondativo dei “nontantoprecisi” dà inizio a un percorso che porterà alla costituzione di una compagnia teatrale informale. Ciò avviene perché il gruppo si accorge che alla fine dei laboratori, quando giungeva il momento della restituzione, nei teatri che l’associazione affittava per la messa in scena dell’evento, gli spettatori erano prevalentemente psicologi, psichiatri e parenti degli utenti del centro. Urgeva allora capire come rompere tale consuetudine, era nato il bisogno di uscire da quel circolo autoreferenziale, andava cercato “il fuori” e di conseguenza una “relazione” con l’altro da sé, fuggendo il piccolo recinto istituzionale del centro diurno.
I “nontantoprecisi” esprimono un’estetica fuori dall’ordinario, il loro è un teatro che della parola fa un uso atipico: a volte la destruttura nella recitazione, a volte la cela lasciando solo corpo, solo spazio, solo tempo. Plasmano i primari elementi costitutivi del teatro. Guardandoli si ha la sensazione di stare davanti al “teatro puro”, quello che si spoglia dalle sue impalcature e mostra il proprio cuore pulsante. Ma tutto ciò li rende poco appetibili agli occhi dell’obnubilato pubblico di massa in cerca di svago e superfice. Al gruppo interessa ben poco dei desideri o delle voglie del sopracitato pubblico, perché molto spesso la compagnia è solita entrare in scena anche davanti alle fermate della metro, nei vicoli e nelle piazze, rivelandosi nella sua essenza “straordinaria” e atemporale, aprendo un varco nella consuetudine del quotidiano dell’uomo e della sua contemporaneità, rompendo così l’immutabilità dei giorni. Arrivando ad affermare con fierezza: “Per rifiutare tutto quello che non abbiamo scelto e prenderci tutto quello che vogliamo e cioè tutto il resto”.
Qui, come nelle migliori tradizioni artistiche, l’estetica diventa inevitabilmente politica e l’atto creativo e apollineo si svincola dall’ambiente in cui è stato relegato. Il teatro abbandona il teatro, fugge dalla propria casa e si colloca al di fuori di sé, con violenza (aggiungerei) si mostra, quando non è il tempo di mostrarsi, quando nessuno si aspetta o vuole avere una rivelazione. Questo suo atto forzante si può solo leggere in termini puramente politici e la sua “violenza” nel manifestarsi lì dove non è previsto e atteso gioca sul duplice piano della fruizione del “bello” e della sua imposizione. Qualcuno diceva che la bellezza salverà il mondo, non sappiamo se i “nontantoprecisi” sono spinti da questo nobile proposito quando ce li troviamo in scena all’improvviso davanti alla fermata dell’autobus, ma di certo ci inducono a una riflessione, parlano a quella parte di noi che coglie l’immateriale senza decifrarlo. Tale pratica fa di loro un’entità che agendo nel quotidiano induce inevitabilmente la mente di chi sale sull’autobus o scende sottoterra a prendere la metro, ad una riflessione; l’epifanico mostrarsi allude all’impalpabile, siamo costretti dall’evento a sollevare la mente dal gorgo funzionalistico, per un piccolo lasso di tempo, non pensiamo solo a dove dobbiamo arrivare, al lavoro da svolgere, alla merce che dobbiamo comprare o vendere. Pertanto l’invasività dell’atto teatrale inaspettato impone un’alta questione. I “nontantoprecisi” non fanno solo arte, ma anche politica.
Per comprenderne affondo la loro complessa estetica, in un afoso pomeriggio di settembre, sono andato a trovarli presso PostO centro culturale, la loro sede in via Castelguidone a Roma, per seguire le prove del nuovo spettacolo. I nontantoprecisi vivono in simbiosi con la cooperativa Passepartout, che si occupa di attività culturali ed artistiche, coniugando percorsi terapeutico-riabilitativi con pratiche artistiche e culturali, soprattutto nel campo cinematografico e teatrale, e in quei giorni erano in corso le prove di “Creazioni Collettive”, un laboratorio di ricerca teatrale aperto alla cittadinanza, condotto dai nontantoprecisi sotto la direzione registica di Nino Pizza. Come mi hanno spiegato, “Creazioni Collettive” è anche un laboratorio che fa parte delle attività terapeutico- riabilitative del Centro Diurno “La voce della Luna”; attività gestite da diversi anni da Passepartout Cooperativa.
Avevo la necessità di vedere da vicino il loro operato e coglierne appieno gli elementi strutturali e costitutivi, comprenderli e poterli descrivere per ciò che sono e non per come si presentano, perché davanti all’erculeo sforzo richiesto nel raccontare una realtà così variegata nelle sue molteplici soggettività, risulterebbe riduttiva la semplice visione di una messa in scena. Non è pleonastico ricordare, a questo punto, che il nostro Paese si porta addosso ancora le conseguenze di un’epidemia e che la compagnia di cui stiamo trattando si occupa attraverso lo strumento teatrale anche di salute mentale in un certo modo, non direttamente e non clinicamente. Sappiamo che la pandemia e le sue nefaste implicazioni sono state devastanti e traumatiche per milioni di italiani che hanno dovuto rimodulare le proprie abitudini o, nei casi peggiori, addirittura modificare radicalmente il modo di vivere. Possiamo per un attimo, invece, immaginare come è andata per chi già da prima della pandemia viveva una situazione di debolezza e marginalità?
Per non parlare del Teatro, l’eterno malato della nostra contemporaneità, che già prima delle chiusure si trovava a sbracciarsi lamentando mancanza di fondi e di spazi e invocando una burocrazia più funzionale ai mutamenti dei nostri tempi. Figuriamoci la sua agonia durante le chiusure dettate dal Covid-19 quando per assistere agli spettacoli si navigava in rete alla ricerca di quel mostro bicefalo che definivano “teatro in streaming”.
Torniamo all’afoso giorno settembrino, sono nella sede, lo spazio è incantevole: un vecchio capannone industriale a forma di elle ben ristrutturato e un giardino curato. L’erba è verde nonostante la torrida estate che ci stiamo per lasciare alle spalle, in mezzo al giardino c’è una gigantesca pianta che non riconosco, è una di quelle da appartamento, viste mille volte, ma mai classificata nella mia mente, qualcuno deve averla impiantata nel bel mezzo del prato dove è cresciuta a dismisura. A sinistra rispetto all’ingresso un’altra pianta, questa la riconosco, è un bellissimo oleandro, alto quasi sei metri, sotto la sua ombra una dozzina di sedie messe in cerchio attorno a un tavolo e alcune persone sparse, vengo accolto con cortesia da Claudio che mi porta dentro la struttura, indicandomi il bagno per lavarmi le mani. Dalla pandemia in poi, ogni volta che prendo la saponetta tra le mani si apre un varco nella mia mente, l’innocuo e spontaneo gesto igienico porta con sé un sinistro ammonimento. I ripetuti proclami delle autorità nei giorni della chiusura che ininterrottamente invitavano la popolazione ad evitare gli assembramenti e a lavarsi le mani sono ormai indelebilmente scolpiti nella mia psiche e hanno trasformato una consuetudine igienica in un gesto apotropaico, compiuto il quale, raggiungo gli altri sotto l’oleandro, mi presento e saluto mentre Mariano, un cinquantenne brizzolato, suona un ritmato blues con una chitarra classica e Andrea capelli lunghi, vestito con jeans strappati e una miriade di anelli su tutte le dita delle mani improvvisa dei lamenti che non hanno nulla a che fare con il ritmo e la melodia eseguiti da Mariano. Caterina e Angela iniziano a dialogare con me, mi domandano se sono lì per il laboratorio, rispondo di sì ma con il presupposto di raccontare l’estetica della loro compagnia, così le due ragazze senza che io avessi chiesto nulla in piena autonomia iniziano all’unisono a darmi cenni sul loro teatro, spiegandomi che tutto ruota attorno allo spazio, al tempo e al “corpo collettivo”. Mi riportano esempi, dicono che: “non devi fare una cosa da solo, prima la devi proporre agli atri e se gli altri la comprendono e la vogliono fare allora si prova, se la cosa che proponi non si comprende, non va fatta. Poi, invece, se ad esempio ti devi grattare il naso o aggiustare la maglietta mentre sei in azione o in scena, lo devi fare come se fosse un atto, non come un gesto che compi ogni giorno, come quando sei seduto con gli amici al bar e parli”. Caterina lavorando sodo per mesi è riuscita a dare vita a una biblioteca, da sola ha classificato e ordinato centinaia di libri che ora sono a disposizione di tutto il quartiere Portonaccio. Angela invece si occupa dell’ufficio stampa dei “nontantoprecisi”, un lavoro molto faticoso, si tratta di mettere insieme i vari rami d’interesse dell’associazione e della Cooperativa Passepartout, che spazia dal teatro al cinema, dalle proiezioni cinematografiche per il pubblico alla produzione di opere filmiche.
Intanto la musica di sottofondo di Mariano e Andrea non ha mai smesso, il gruppo si è popolato: Federica, che avevo lasciato davanti alle scartoffie nell’ufficio al mio arrivo, Nino il regista, Marcello e Marta che sono i fondatori del gruppo raggiungono anche loro l’oleandro e la sua ombra, c’è anche il nuovo arrivato, è un giovane tirocinante, avrà al massimo vent’anni e timidamente si avvicina all’aggregato di teatranti. Il gruppo ora conta circa una ventina di individui, si sta cercando di capire se è meglio approfittare del clima e fare la le prove all’aperto nel giardino, non solo per la piacevolezza del luogo e del sole, ma anche e soprattutto come precauzione, profilassi. Alla fine dopo avare atteso l’ultimo che si era disperso nel bagno, si opta collettivamente per fare le prove all’aperto.