No all’aziendalismo nella scuola. Deve, invece, farsi avanguardia di un cambiamento sociale radicale.
Sin dal suo insediamento, il governo presieduto da Giorgia Meloni si è distinto per il lessico grottesco dei suoi ministeri. Una delle ridenominazioni che più ha fatto discutere è stata proprio quella del Ministero dell’Istruzione, dal suo governo ribattezzato «Ministero dell’Istruzione e del Merito» e presieduto dal 22 ottobre 2022 dal leghista Giuseppe Valditara, tra i relatori della legge 240/2010, nota come Riforma Gelmini. La scelta del termine “merito” è stata molto contestata, anche se la parola è presente nell’articolo 34 della Costituzione, dove si afferma che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, da leggersi però insieme all’articolo 3 che indica come compito della Repubblica quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di merito, a scuola? Chi sarebbero “i capaci e i meritevoli”? Gli enti per il diritto allo studio selezionano gli studenti attraverso tre criteri: la situazione economica, la media dei voti e, all’università, il numero di crediti conseguiti. Nella Repubblica, il merito viene quindi misurato attraverso il voto numerico, metodo valutativo utilizzato in ogni ordine scolastico dalla scuola secondaria di primo grado in poi che tuttavia, secondo alcuni studi, sarebbe inadeguato.
Nel dicembre 2022, il sito del Corriere della Sera ha diffuso la notizia che a Roma esisteva un “liceo senza voti e senza stress”.L’articolo si riferiva in realtà alla sezione sperimentale del Liceo scientifico Morgagni, intitolata «Scuola delle relazioni e delle responsabilità». Come racconta il professor Enzo Arte, docente di matematica e fisica, in queste classi le verifiche vengono valutate in maniera descrittiva e quindi trasparente, dando cioè allo studente un riscontro preciso sui suoi punti deboli e di forza, informandolo così sui suoi progressi rispetto agli obiettivi, nel pieno rispetto della normativa che prevede l’obbligo del voto numerico solo nella scheda di valutazione. Inoltre, l’attività in classe non è animata dalla competizione, ma dalla cooperazione tra gli studenti. Proprio la relazione è infatti al centro della sezione sperimentale del Morgagni, avviata in seno ad un progetto molto interessante, ovvero il Coordinamento per la Valutazione Educativa, nato nel 2022 su iniziativa di docenti, dirigenti, studenti e famiglie che intendono ripensare radicalmente la didattica e la scuola.
La sperimentazione del Morgagni è stata prevedibilmente liquidata da più parti, ma dietro questo esperimento si cela un vivo dibattito tra coloro che vogliono trasformare radicalmente la scuola. La vivace discussione, purtroppo per nulla divulgata dai mass media, stona con la rappresentazione piatta e grigia che si offre del complesso e articolato mondo della scuola. Una critica interessante al manifesto del Coordinamento arriva da Marco Maurizi che, recensendo «L’ultima ora» di Christian Raimo, sfrutta l’occasione per evidenziare alcuni punti deboli della critica pedagogica. La replica di Maurizi è convincente dove riflette in particolare sul tema della disabilità e della inclusività. Qui l’autore si chiede in quale direzione la critica pedagogica ha in mente di riformare la società quando afferma che la valutazione educativa è educazione politica, cioè strategia didattico-politica in grado di disarticolare dall’interno la società capitalista basata sulla competizione. Una forma di lotta di classe che partirebbe dalla scuola, insomma, e che si farebbe così avanguardia di un cambiamento sociale radicale.
Il nodo del complicato e tortuoso dibattito riguarda proprio il ruolo della scuola all’interno della società: per i pedagogisti baluardo del cambiamento sociale, per altri, spazio dove le contraddizioni sociali non possono essere superate da nuove strategie didattiche, ma dove la libertà di insegnamento può fare la differenza. Si capisce allora come mai Enrico Campanelli, in un articolo pubblicato su Micromega, denuncia come la figura dell’insegnante sia martellata tanto dall’aziendalismo di chi vuole l’istruzione asservita al mercato quanto dal pedagogismo che intende spogliare il docente del suo ruolo di , intellettuale critico. ,
Le repliche di Maurizi e Campanelli colgono il principale punto debole del discorso sulla scuola dei pedagogisti. Se è la relazione l’elemento fondamentale della didattica, non è chiaro come si intenda tutelarla senza mettere in crisi i governi – compreso quello di Meloni – che da decenni non investono in alcun modo sulla stabilizzazione dei docenti e si adoperano anzi per lo smantellamento completo della scuola pubblica, ad esempio dirottando i fondi statali alle scuole paritarie e private.
D’altro canto la critica pedagogica pone delle questioni non più rimandabili, e spostare l’oggetto del discorso invece di includerne gli elementi di novità non fa un buon servizio. La scuola dell’era post-pandemica non può infatti ignorare quello che è accaduto dal febbraio 2020 in poi, e quindi non può continuare a bocciare, mettere brutti voti e fare verifiche come se niente fosse mai accaduto, come se le disuguaglianze sociali non si fossero accentuate ancora di più e come se due anni di didattica a distanza non avessero dimostrato la necessità di ripensare completamente la scuola pubblica, lo stesso «ospedale che cura i sani e respinge i malati» che i ragazzi di Barbiana denunciavano in «Lettera a una professoressa» nel 1967. È un ripensamento che deve tener conto di tutti i protagonisti del discorso: innanzi tutto della scuola come spazio e quindi delle sue aule, già tormentone dell’estate 2020 dell’allora Ministra Azzolina; quindi degli studenti e delle diverse necessità cui evidentemente i piani didattici personalizzati non riescono a rispondere, né le diagnosi più varie; poi della relazione della categoria docente con il corpo studentesco nel suo insieme, che non può ridursi a un voto numerico o a una nota sul registro di fronte alle situazioni – spesso difficili e complicate – che gli studenti vivono in famiglia; infine del ruolo della categoria dei docenti che non può (più) essere solo quello di etichettare gli studenti, dividendoli in incapaci e capaci.
A proporre un dibattito così articolato di fronte ad un governo reazionario come quello guidato da Meloni si rischia di essere accusati di non comprendere quali sono le attuali priorità per la tutela della sistema scolastico. Tuttavia, il dibattito sulla scuola non può più procedere per urgenze ed emergenze. Occorre imporre invece sull’urgente l’importante, il fondamentale, ovvero la realizzazione di una scuola che quotidianamente rimuova davvero quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, garantendo il diritto allo studio a tutte e tutti, in ogni ordine e grado.
Serena Ganzarolli