“È una necessità”, mi spiega Aleksej, proprietario di un pub in centro. “Io prima ero un cosmopolita, non me n’era mai importato nulla dei discorsi sulla patria e il resto della retorica. Oggi però sono un nazionalista, sono stato costretto a diventare un nazionalista da Putin, che il più grande fascista vivente”. Ma perché costretto? “Perché non voglio che si ripeta un altro Donbass, un’altra Crimea, non voglio che facciamo la fine della Georgia”. Aleksej racconta che la Crimea era il suo luogo del cuore, ci andava per rilassarsi, “per staccare qualche giorno non appena potevo. Lì la natura è bellissima, il cielo di notte è mozzafiato e le spiagge…”. Quando la Crimea è stata annessa ala Russia la sua visione delle cose è cambiata, ma neanche lui, come Simon, si è arruolato direttamente. “Ho organizzato l’acquisto e la distribuzione di presidi medici che qui mancavano, ma non per l’esercito, per i volontari; quello è stato il mio contributo”. Questa sorta di “mobilitazione totale” pre-conflitto è comune in Ucraina. In molti, soprattutto della classe media sentono di “dover fare la propria parte”. Ad esempio, nei pressi della frontiera con la Russia, in un villaggio di poche case chiamato Kozacha Lopan’ siamo stati seguiti da una coppia, padre e figlio, che dopo aver confabulato tra loro per un po’ si sono avvicinati e hanno chiesto “giornalisti?”. Non si sono fidati e hanno chiamato la polizia, potevamo (ai loro occhi) essere benissimo delle spie russe. La linea di confine sopra Karkhiv fa una curva di qualche centinaio di km e arriva a Oleksandrivka, ai lati delle strade non si riesce a soffermarsi su nessun punto: è solo bianco a perdita d’occhio. Gli analisti internazionali dicono che se davvero Mosca decidesse di invadere via terra potrebbe farlo da qui, ma che in tal caso dovrebbe sbrigarsi perché i carrarmati hanno bisogno di terreno compatto per avanzare.
Negli ultimi giorni le medie sono state superiori a quelle stagionali e il ghiaccio inizia a sciogliersi, il rischio che i mezzi militari si impantino è alto. In quest’area i villaggi sono collegati da strade a una corsia che tagliano la steppa senza mai dare riposo agli occhi, se non sugli sporadici alberi secchi o sulle orrende pensiline degli autobus di cemento che, persino qui, danno riparo a qualche coraggioso in attesa. Su alcuni negozi si leggono ancora le scritte in russo, su altri sono state sostituite dall’ucraino. Non si dimentichi che una delle grandi battaglie di Zelenskyj nell’ultimo anno è stata proprio quella linguistica, forse, a suo modo di vedere, eliminare il russo dalle scuole era un modo efficace per stroncare le pretese di Putin sulle aree dove la popolazione è ancora a maggioranza russofona. Ma per questo ci vorrà del tempo (e, sinceramente, speriamo non si completi del tutto la disgregazione culturale dei rapporti tra questi due storici vicini), nel frattempo si parla la lingua dell’attesa angosciosa, del sospetto, dell’aggressività.