‘”Power without love is reckless and abusive, and love without power is sentimental and anemic. Power at its best is love implementing the demands of justice, and justice at its best is power correcting everything that stands against love’”
Martin Luther King Jr.
Era il 2004 quando nientemeno che la petrolifera British Petroleum presentò al mondo, come parte di una campagna pubblicitaria, la calcolatrice dell’impronta ecologica, la cui funzione è misurare l’impronta ecologica personale di ciascuno di noi. Questa campagna segue una lunga linea di propaganda capitalista che ci vuole convinti che azioni personali come avere figli, possedere una macchina tradizionale o prendere l’aereo siano i peccati che condannano generazioni future alla vita in un pianeta malato. La verità, però, è che col ridursi di queste attività durante la pandemia, l’impronta ecologica è scesa di solo un 8,8% —forse perché il 71% delle emissioni sono in realtà da attribuire a 100 imprese.
Questo è solo un esempio di come la classe capitalista fa ricadere le sue responsabilità sugli individui, per lo più lavoratrici, convincendoli che il loro ruolo di consumatrori sia una questione chiave nell’avvenire della società e del mondo, in termini di merito o di colpa. È forse questo cambiamento, quello di concepire noi stessi come consumatori invece che come produttori, una delle cause principali della drammatica perdita di potere della sinistra politica, tragicamente accelerata in particolare da quella che venne chiamata da Francis Fukuyama la ‘fine della storia’: l’inizio degli anni 90 del secolo scorso.
Negli ultimi trent’anni e più, infatti, abbiamo creduto a questa profezia così tanto da rifiutare le sinistre che ci hanno preceduto fino al punto da non riconoscere chi e come poteva portare avanti un cambio di sistema. E uno degli aspetti che abbiamo introdotto è, per nostra sfortuna, proprio questo: il pensarci come consumatori. Le battaglie in difesa dei nostri diritti vengono così portate avanti non con scioperi, leggi o azioni di di sindacati e partiti politici di sinistra, ma da individui privati (e atomizzati).
Questo porta inevitabilmente ad analizzare al dettaglio tutto ciò che facciamo nelle nostre vite personali, e specialmente cosa consumiamo. Invece di organizzarci in sindacati o partiti politici, compriamo vestiti usati, cibo ecologico, diventiamo vegetariani, boicottiamo prodotti di marchi che consideriamo razzisti o sessisti — come accadde con il marchio alimentare Goya negli Stati Uniti con risultati tutt’altro che desiderabili — o conferenze di accademici considerati ‘problematici’, come per esempio Adolph Reed. Diventiamo, essenzialmente, dei poliziotti che si controllano a vicenda come per ottenere un punteggio finale sulle qualità morali.
Siccome ci siamo rassegnati ad una sconfitta permanente, e abbiamo persino abbandonato l’idea che il potere sia qualcosa di positivo, lottiamo per incarnare la virtù nel privato, in modo atomizzato. Questa atomizzazione è principalmente causata dalle politiche neoliberiste innescate sin dai governi della britannica Margaret Thatcher e dell’americano Ronald Reagan negli anni ’70 e ’80. Oltre a questo, però, la stessa sinistra sembra essere egemonicamente arrivata alla conclusione che, invece di una classe lavoratrice unita e in guerra per il potere, siamo gruppi rivendicativi basati su identità svariate ma comunque non categorizzabili, come ci definirebbero postmarxisti come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe: la classe diventa così solo un’altra di queste identità. La nostra lotta non si basa più su interessi materiali, ma sul definire noi stessi, in una forma di egocentrismo individualista.
La prevalenza di queste percezioni ha molto a che fare con il nostro autorappresentarci come consumatori. Per esempio, questo atteggiamento ci porta a rinunciare al dibattito tra noi stessi e con la destra. Negli Stati Uniti vediamo un chiaro esempio di chi soffre questo nella figura di Adolph Reed, un professore universitario esperto nella questione razziale e il suo nesso con la classe in America. Con il suo approccio socialista, che va dunque alla radice del problema, si è guadagnato non pochi nemici tra i liberali ma anche tra la sinistra incentrata su temi come il postcolonialismo, che hanno impedito, per esempio, che desse una conferenza alla sezione newyorkese dei Socialisti Democratici d’America.
Un’altra importante figura della sinistra, la rinomata giornalista Ana Kasparian, ha da parte sua avuto dibattiti con conservatori come Ben Shapiro, ricevendo le critiche di buona parte della stessa sinistra che ha fermato la conferenza di Reed, una sinistra che ritiene che discutere con qualcuno equivalga a validare le sue idee. Secondo questa sinistra, dunque, con chi parliamo definisce la nostra moralità, e questo è più importante che mettere alla prova le nostre idee e farle arrivare a più persone. Con chi siamo disposti ad avere un dibattito diventa dunque una specie di scelta da consumatori.
Questi giudizi, però, non si limitano all’ambito degli spazi pubblici o mediatici. Vanno oltre, fino a infilarsi nei nostri letti come farebbero i più autoritari conservatori anti matrimonio egualitario. Si è resa famosa nel Regno Unito la frase ‘you shall never fuck a Tory’ (‘non farai mai sesso con uno di destra’): la politica, dice questa sinistra, va fatta a letto, definisce chi amiamo, chi sono i nostri amici, quali vestiti indossiamo, quale musica ascoltiamo, a quali eventi andiamo, quali locali frequentiamo. E anche se e come ci trucchiamo, quali foto postiamo su Instagram, quali opinioni mostriamo su Twitter, e un lungo eccetera di attività che hanno in comune una cosa: non c’entrano nulla con la politica.
L’invadenza nelle nostre vite sessuali ha delle conseguenze molto concrete. Parti specifiche del movimento femminista vogliono, per esempio, a tutti i costi abolire la prostituzione. La legge spagnola chiamata del ‘solo sí es sí’ (‘soltanto un sì è un sì’) è un esempio di questo: a causa di essa, le lavoratrici del sesso hanno visto le loro vite peggiorare, non migliorare. Invece di abolire leggi razziste o espropriare abitazioni per ridistribuirle, il Ministero di Irene Montero, che in altri campi fa invece, fortunatamente, un buon lavoro, si è limitato ad imporre la sua particolare idea di consenso a tutte le lavoratrici di questo settore, invece di migliorare le loro condizioni materiali.
Questa corrente femminista propugna così di avere ottenuto una vittoria morale, dicendo di avere indicato la strada più moralmente elevata a donne che, invece, dovrebbero avere diritto a fare le loro scelte dentro ad un sistema capitalista nel quale le scelte sono sempre e comunque, quindi anche nell’ambito della prostituzione, fatte dentro ad una dinamica coercitiva.
Le conseguenze di questo tipo di vigilanza le sperimentiamo però tutti: sappiamo che le nostre azioni, anche se fatte in modo complesso e inevitabilmente soggette ad errore umano, verranno messe sotto analisi. Se a essere analizzati in questo modo, invece degli aspetti personali della vita, fossero dei trend che appaiono in modo ripetuto nella società —come, ad esempio, i femminicidi — e che rendono evidente ciò che la domina, come per esempio il maschilismo, avrebbe senso esaminare comportamenti che spesso sono, effettivamente, quotidiani. Questo, però, non è il caso di coloro che, invece di guardare l’insieme sociale, puntano il dito verso gli individui e le loro scelte personali che considerano interamente libere e razionali, e dunque duramente condannabili.
Non tutti siamo ugualmente “colpevoli” di queste tendenze: la classe che si trova tra quella lavoratrice e quella capitalista è, infatti, un attore di grande rilevanza quando parliamo della politica del moralismo. L’accademica americana Catherine Liu ci parla infatti di quella che chiama la ‘professional managerial class’, la classe pagata da quella capitalista per gestire quella lavoratrice. Questa ‘prima società’, che l’autore Paolo Gerbaudo lega, in Italia, al Partito Democratico, è ossessionata dall’aderire a questo approccio politico disfattista e protestante.
Liu ci racconta come, per questa classe, la politica consista nell’usare energia rinnovabile a casa per non sentirsi in colpa riguardo l’uso di aria condizionata, nel pensare ossessivamente a quali prodotti dare da mangiare ai figli, nello sviluppare nuove terminologie per riferirsi a gruppi oppressi in modo considerato più politicamente corretto. In definitiva: tramite il loro consumo e le loro scelte personali, questa classe pretende di accumulare la virtù come un bene che manca alla classe lavoratrice, e che gli dà il permesso di condannarla.
Le nostre condizioni materiali sono allarmanti. I decenni di sconfitta perpetua della sinistra non sono un caso, ma un risultato di tendenze come quella di identificarci come consumatori. Il nostro potere non sta in quello che consumiamo né nel come o con chi lo facciamo, sta in ciò che ci dà il potere di cambiare tutto insieme, sta in ciò che siamo: lavoratori. Come tali, produciamo tutto ciò da cui dipende il mondo: è il nostro lavoro quindi che lo muove, ed è – ancora una volta – nell’usare questo per avvantaggiarci che giace potenzialmente la nostra capacità di cambiare il sistema.