Lo scorso undici agosto è uscito nelle sale cinematografiche italiane “Nope”, ultimo film del regista premio oscar Jordan Peele. Il film, già al centro delle attenzioni del pubblico sin dal suo annuncio, ha ottenuto un buon responso critico oltre ad un cospicuo incasso nei botteghini internazionali.
Come nelle precedenti opere, il regista statunitense si affida al genere horror ma stavolta si discosta dal tono e dalle atmosfere dei precedenti film, preferendo affidarsi ad altri linguaggi e soprattutto ad altre ispirazioni (su tutte è riscontrabile una forte suggestione Spielbergiana). Se è vero infatti che sia “Get Out” sia “Us” erano fortemente caratterizzati da un’atmosfera thriller, in “Nope”, Jordan Peele mette da parte (non completamente) quell’elemento, per inserire vere e proprie sequenze action, rendendo per certi versi il film più diretto rispetto ai precedenti.
La trama del film è piuttosto semplice, una coppia di fratelli, O.J. (Daniel Kaluuya) ed Em (Keke Palmer), proprietari di un maneggio di cavalli destinati all’uso nei set cinematografici, scopre l’esistenza di un essere extraterrestre che si nasconde all’interno di una nuvola immobile che sovrasta la loro proprietà. I due, in una pessima situazione economica, decidono di voler immortalare l’essere extraterrestre e vendere la sequenza alle televisioni per arricchirsi smisuratamente, ma come facilmente prevedibile, riprendere l’essere alieno è tutt’altro che semplice.
Dal punto di vista narrativo il film si può facilmente dividere in due parti: la prima parte è più legata all’horror vero e proprio mentre la seconda si affida all’action. In questa divisione netta, a mio avviso, si riscontra quello che è il difetto più evidente del film: il ritmo. Il film inizia lentamente, tiene per mano lo spettatore e lo conduce piano piano a scoperte necessarie per mettere insieme i tasselli della storia; improvvisamente però impenna, sembra quasi come se i personaggi, soprattutto quello interpretato da Kaluuya, vengano spinti all’azione quasi per dovere di trama. Un cambiamento di rotta netto che non inficia la godibilità del film ma che fa storcere il naso. Parallelamente a ciò anche il montaggio ne risente: le sequenze horror e action sono montate magistralmente, ma analizzando l’opera nel complesso si ha la sensazione di una mancanza di un’unità di fondo.
Continuando sulla scia delle cose che possono far storcere il naso allo spettatore, occorre parlare della caratterizzazione dei personaggi e della recitazione. Oltre al processo di crescita quasi “casuale”, i personaggi sono caratterizzati in modo troppo estremo. Ad esempio, i due fratelli sono uno estremamente calmo e granitico e l’altra eccessivamente esuberante, e questo li rende di fatto monodimensionali e privi di sfaccettature. Tutto ciò non aiuta la recitazione; non si può certamente dire che il film sia recitato male, ma le interpretazioni risultano piuttosto piatte e ciò sorprende soprattutto nel caso di Daniel Kaluuya, vincitore del premio oscar come attore non protagonista nel 2021.
Al netto di ciò, il film resta comunque imperdibile e ciò è dovuto al sottotesto e al discorso meta-cinematografico che permea completamente l’ultima fatica di Jordan Peele.
Nei precedenti lavori del regista statunitense il nucleo da cui la storia prende vita è il razzismo e con esso la critica alle divisioni sociali, in “Nope” tutto nasce dalla riflessione sulla “visual culture”. Jordan Peele riempie, dall’inizio alla sequenza finale, il film di elementi che rimandano costantemente a questo. Su tutti, a mio avviso, sono tre i principali e i più significativi. Il primo e il più diretto è quello legato allo scopo dei protagonisti: il denaro. I due, discendenti diretti del fantino ritratto da Edweard Muybridge nella sequenza fotografica che secondo i critici è alla base della nascita del cinema, non hanno alcuno scopo nobile, vogliono solo arricchirsi. Sono alla ricerca della sequenza perfetta da vendere. In questo senso, l’immagine è diventata l’ennesima merce da consumare. Anzi, non l’ennesima ma la più appetibile. L’occhio è la nostra nuova bocca e fagocita e digerisce in un processo senza fine l’infinità di immagini che gli viene data in pasto.
Il secondo elemento fondamentale, direttamente legato al primo, è la fisicità dell’alieno: la forma di vita extraterrestre ha fondamentalmente le sembianze di un occhio gigantesco e mangia attraverso un unico orifizio (la pupilla). L’alieno ingoia tutto ciò che lo guarda quasi come se volesse garantirsi la sua posizione di potere. Questa è una chiara metafora dello sguardo predatorio dell’uomo sul mondo e sul costante bisogno dell’uomo di affermare il potere dello sguardo. Inoltre, è significativo che nella parte conclusiva del film l’alieno muta e da occhio umano si trasforma in un essere che ha come nuova bocca una forma quadrata facilmente riconducibile al sensore di una fotocamera. Il regista sembra quasi volerci dire che ormai il percorso è segnato, è l’evoluzione del nostro occhio è proprio la fotocamera (e con essa la macchina da presa).
Infine, il terzo elemento è ascrivibile ad una scena precisa del film: il regista che i due fratelli hanno chiamato per riprendere l’alieno, in un momento di estasi e desideroso di riprendere la sequenza impossibile e osservare direttamente quell’essere, esce allo scoperto, si espone al pericolo e infine viene mangiato dall’alieno.
In questo caso, il gesto non viene compiuto per arricchirsi, ma per godere della visione. A muovere il personaggio è la sola pulsione finalistica insita nell’uomo.
Sebastian Angieri