Dopo il riuscitissimo esordio con “Hereditary” e la conferma con “Midsommar”, Ari Aster torna al cinema con il suo nuovo lungometraggio “Beau ha paura”, uscito nelle sale italiane il 27 aprile scorso.
La pellicola vede al centro Beau, un uomo che appare sin da subito incapace, inetto e problematico, intento a compiere un viaggio verso casa della madre nell’anniversario della morte del padre. Nel corso di questa sorta di pellegrinaggio, tempestato di contrattempi e impedimenti, il protagonista dovrà scontrarsi sia realmente sia metaforicamente con tutte le turbe psichiche con cui sembra non aver combattuto durante tutto il resto della sua vita. Tutto ciò che accade si muove su una strettissima linea a cavallo tra una dimensione realistica, ma di fatto mai verosimile, e una onirica e psicologica. Le frequenti incursioni di una dimensione nell’altra denotano l’opera rendendo il grottesco e il surreale il registro linguistico prediletto attraverso il quale Aster comunica con lo spettatore.
Grazie all’ambiguità di fondo che permea la pellicola, il regista statunitense è anche in grado di inserire frequenti elementi comici che certamente non lasceranno impassibile il pubblico. Questi ultimi contribuiscono all’idea, a mio avviso errata, di considerare Beau ha paura una commedia horror. Tale categorizzazione, certamente più utile ai distributori che non a critici e pubblico, risulta una semplificazione troppo netta.
In questa pellicola Aster inserisce elementi provenienti da ambiti culturali profondamente diversi tra loro: si passa dall’angoscia esistenziale propria dei personaggi di Kafka, alla psicopatologia freudiana, passando per un certo tipo di cinema che si rifà alla triade Kaufman, Gondry, Jonze. Ed è proprio in questo miscuglio eterogeneo il punto debole del film. La vicenda narrata viene portata avanti tramite blocchi narrativi diversi: ognuno di essi si concentra su un tema principale e su un aspetto della psiche frammentata del protagonista. Sebbene queste varie sequenze siano in qualche modo unite da continui flashback e dal topos del viaggio che muove il personaggio, tutto risulta eccessivamente slegato.
Inoltre, questo modo di narrare attraverso blocchi separati non fa altro che aumentare la sensazione di sovrabbondanza pleonastica che si prova intorno ai tre quarti del film. Molti concetti, evidentemente cari ad Aster, si ripetono costantemente e ripetutamente, anche se cambiando forma, nel corso del film. Ciò non fa altro che aumentare in modo esponenziale la durata (ben 179 minuti).
In aggiunta a ciò, c’è un elemento di fondo che riguarda il protagonista che non convince: il suo agire e mutare nella storia. Nel film c’è un evidente tratto di circolarità ma ciò non giustifica il modo in cui viene portato avanti l’arco narrativo del protagonista. Beau subisce ogni svolta del suo viaggio in modo passivo. Ogni transizione tra un blocco narrativo e l’altro avviene per colpa, o merito, di un agente esterno il che, in un film che probabilmente vuole essere la messa in scena di un processo mentale e psicologico, fa perdere di importanza a tutto il contesto. Inoltre, nel finale, in cui è presente un’arguta similitudine tra gli spettatori di un processo e il pubblico cinematografico presente in sala, non si avverte una reale presa di posizione o un cambiamento del protagonista. Ciò si può sicuramente interpretare in molti modi diversi, soprattutto in base al trasporto con cui si è visto il film, ma questa costante aggiunta di elementi nuovi del regista, impedisce al film di giungere da qualche parte.
“Beau ha paura”, è un puzzle composto da pezzi che presi singolarmente danno l’idea di un grande disegno ma che uniti tra loro non riescono a comporre un quadro altrettanto valido.
Sebastian Angieri