Il debito con la Terra non è un gioco: Earth Overshoot Day 2023

Il debito con la Terra non è un gioco: Earth Overshoot Day 2023

Ufficialmente oggi non si celebra una giornata mondiale, ma si dovrebbe.  Oggi, 2 agosto 2023, cade l’Earth Overshoot Day, il giorno in cui abbiamo esaurito le risorse che la Terra ci mette a disposizione in un anno. Da adesso in poi qualunque nostra azione è un debito con il pianeta.

Non ci sogneremmo mai di fare shopping senza denaro, che sia contante o digitale, non penseremmo mai di acquistare nemmeno a rate qualcosa che davvero non possiamo permetterci. Con il pianeta, invece ci permettiamo di farlo da sempre e con certezza da più di 50 anni quando, nel 1969, fu fondata questa misurazione.
L’Overshoot Day, che nel 1971 cadeva il 25 dicembre, arretra nel tempo e la tendenza non sembra invertirsi (lo scorso anno era “tornato indietro” al 28 luglio, ma comunque molto vicino alla data di oggi). 

Per l’Italia, in realtà, è un anniversario già vissuto il 15 maggio di quest’anno, per cui si calcola che gli italiani abbiano bisogno di 2,7 pianeti come la Terra ogni anno, stando alle risorse che consumano. Il nostro paese si trova infatti tra i più debitori nei confronti della propria biocapacità nella mappa del Global Footprint Network

Si dice che l’idea per l’Earth Overshoot Day sia originariamente venuta dalla New Economics Foundation (NEF), un think tank con sede nel Regno Unito a sua volta fondato nel 1986 dai leader di The Other Economic Summit (TOES) con l’obiettivo di lavorare per un “nuovo modello di creazione di ricchezza, basato su uguaglianza, diversità e stabilità economica”. I componenti facevano parte del partito inglese dei verdi e, quasi al pari dei contemporanei no global, avevano organizzato un contro vertice al G7 del 1984 tenutosi per la prima volta a Londra.

Da diversi anni la capacità della terra viene calcolata con metodi trasparenti ma di tanto in tanto scientificamente discussi dal Global Footprint Network che mette a disposizione sul proprio sito anche anche la possibilità di calcolare la propria impronta ambientale sulla base del proprio stile di vita. I risultati sono spesso scioccanti, quantomeno alle nostre latitudini e con le nostre vite.

Occorre infatti ricordarci che tutte le nostre azioni collettive su larga scala hanno un’impronta ambientale, contribuiscono così in una certa parte alle emissioni e al cambiamento climatico a cui assistiamo inermi.

L’uso dell’auto invece dei mezzi pubblici, ma anche il delivery, la precisa scelta di consumare cibi preparati invece di quelli freschi, assemblati e imballati a molta distanza al posto di prodotti a chilometro zero, ogni nostro reso dopo lo shopping online, le ore passate davanti ai social network o a Netflix, prediligere il fast fashion invece che fibre e tessuti più costosi e più duraturi, sono tutte azioni quotidiane che impattano sulle emissioni di anidride carbonica più di quanto siamo disposti a credere. 

Ma l’overshoot day, dichiarava Mathis Wackernagel, fondatore e presidente del Global Footprint Network, non nasce per colpevolizzare l’individualità di ognuno.

Non siamo infiniti: risorse e solidarietà

Questo è infatti il punto su cui si incaglia molto del dibattito ambientalista. Quanto contiamo (o non contiamo) noi esseri umani con i nostri comportamenti individuali? Siamo davvero capaci di un effetto farfalla sui mercati, sui consumi, sull’azione collettiva in favore del clima? 

Wackernagel racconta in un’intervista quando, nella sua esperienza di docente, una studentessa gli chiese perché dover optare per uno stile di vita sostenibile, quindi privarsi di molte delle proprie abitudini solo per permettere agli altri di stare meglio. Forse ancora gli effetti del climate change non erano così visibili e l’attenzione mediatica così allarmista.

Non è questione di beneficenza, disse lui. Ma di solidarietà. 

Dopotutto il significato stesso di “sostenibilità” nella sua definizione ha a che fare con la solidarietà nei confronti delle generazioni che verranno e il mantenimento delle risorse per il futuro.

Non lo facciamo per altruismo, ma per sentirci al sicuro rispetto alle risorse che possediamo”. Affermazione che ci viene più facile da interiorizzare se pensiamo alla crisi delle materie prime che ha colpito le infrastrutture dei paesi sviluppati in seguito alla pandemia e poi alla guerra in Ucraina. Come primo e urgente bisogno della piramide di Maslow dell’umano, è per la sicurezza che dobbiamo essere consapevoli della finitezza delle risorse e scegliere le strade per consumare meno, o semplicemente meglio. Essere dipendenti da abitudini come il delivery, l’uso dell’auto, vacanze fatte da lunghi tragitti in aereo espone prima di tutti noi stessi al rischio del limite

La solidarietà come motore propulsivo del cambiamento contiene un altro aspetto che di rado si considera quando si parla di sostenibilità: le disuguaglianze. 

Guardando la mappa dell’Overshoot Day vediamo come il sovrasfruttamento delle risorse terrestri sia in realtà fautore di disuguaglianze: a essere in debito con il pianeta sono i paesi più economicamente sviluppati e quelli in via di sviluppo, nello specifico l’Europa, l’Asia, i paesi dell’Africa subsahariana, Centro e Nord America. Paesi dotati di infrastrutture e industrie, in grado di processare ed elaborare materie prime. I creditori sono i paesi considerati più poveri che spesso mantengono ancora intatta o poco sfruttata la loro biocapacità. 

Il sovrasfruttamento dei paesi privi di infrastrutture da parte dei paesi in credito non può risolversi con la responsabilità individuale. Senza prima abbattere queste disuguaglianze si potrà fare poco per il pianeta.

Una blasonata ricerca di qualche anno fa sosteneva che a provocare il 70% delle emissioni siano “solo” 100 imprese

Non sono pochi però a pensare anche che questo insistere pervasivo sulla responsabilità individuale che abbiamo sulle sorti del pianeta sia in realtà un subdolo trucco neoliberista, utile a dissuaderci da un’azione collettiva (Il Guardian, ad esempio, commentando la ricerca, parlava di ripensare una statalizzazione delle imprese contro le lobby di combustibili fossili e le conseguenti emissioni). In effetti non si conta più molto sulle imprese per quel che riguarda l’impegno nei confronti del pianeta, nessuno crede più al bombardamento di greenwashing pubblicitario delle grandi multinazionali di gas ed energia. Ma anche credere che la nostra buona abitudine di fare la raccolta differenziata possa da sola bastare a mantenere la temperatura sotto l’innalzamento di 2 gradi come da obiettivo dell’agenda 2030 è da illusi.

L’altra grande critica che è stata mossa nel tempo alla misurazione dell’Overshoot Day è che siamo troppi sulla Terra. Come sempre la “colpa” della sovrappopolazione va alle popolazioni dei paesi in via di sviluppo. Come spesso accade si chiede di rallentare a chi lo sviluppo non lo ha mai conosciuto. Perpetrando, quindi, altre disuguaglianze concettuali…

Ma anche qui il fondatore Wackernagel si affrettava a rispondere alle critiche sostenendo quello che oggi è chiaro a tutti: abbattendo le disuguaglianze c’è spazio (e terra) per tutti.

Senza dimenticare che nell’era dell’intraprendenza e del pieno sviluppo tecnologico, più persone significano più idee, più innovazione, più potenziale. L’idea malthusiana del controllo della popolazione, oltre che impraticabile, è assolutamente stantìa.

Le soluzioni, che sia o meno troppo tardi

Sempre il Global Footprint Network, forse per consolarci dal fatto di utilizzare almeno 3 terre in un anno, ci mette a disposizione qualche possibilità di azione, per lo più su scala collettiva, per rimandare la catastrofe. Banalmente, il prezzo delle fonti fossili che, se aumentato, può allungare lo sfruttamento della terra in un anno di 63 giorni. Ma anche garantire una salute riproduttiva delle giovani donne, che non vuol dire un controllo delle nascite ma strumenti utili a rendere la riproduzione una libera scelta nei paesi in cui non lo è. Fanno la loro parte anche la possibilità di ridurre la settimana lavorativa, aumentare la durata delle batterie con adeguato riciclo e tecniche all’avanguardia di immagazinamento dell’energia.

Anche se il caldo torrido di questi giorni  ci fa pensare di essere a un punto di non ritorno, l’allarmismo di facciata non è la strada giusta. conviene rimboccarsi le maniche, non strafare con il superfluo, mettere un limite al consumo, riflettere sulle azioni individuali perché diventino collettive, smettere di vivere al di sopra delle nostre possibilità. 

Credere al cambiamento climatico, che è una realtà da millenni ma che ora fa del male ai paesi e alle popolazioni già svantaggiate.

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