Le automobili continuano ad arrivare a Kornidzor, un piccolo centro a ridosso del confine tra Armenia e Azerbaigian. Da giorni migliaia di armeni stanno fuggendo dal Nagorno-Karabakh a causa dell’offensiva lampo che giovedì scorso ha definitivamente spezzato le difese armene. Le macchine sono stipate di ogni genere di cosa, alcune hanno addirittura dei mobili sui portapacchi. Altri non hanno niente, e sembra già un miracolo che siano arrivati fin qui.
Per percorrere i circa 90 chilometri che separano Stepanakert, la capitale indipendentista del Nagorno-Karabakh filo-armeno, alla prima frontiera armena si impiegano almeno 10 ore, raccontano gli sfollati. E la preoccupazione più immediata è avere abbastanza benzina per giungere almeno al di là dell’ultimo check-point. Lunedì sera a Stepanakert una violenta esplosione, molto probabilmente causata da un incidente, ha colpito un deposito di carburante. Non si hanno dati ufficiali confermabili, ma fonti armene parlano di 125 morti e oltre 300 feriti. Oltre all’ecatombe causata dall’esplosione, la mancanza di carburante sta costringendo molte persone a casa, in attesa che in qualche modo arrivino i rifornimenti. Ma la paura è tanta e i racconti di abusi perpetrati dalle truppe azere si moltiplicano. Per ora le autorità armene e la Croce Rossa non si sbilanciano, la risposta standard è «stiamo raccogliendo testimonianze che inoltreremo agli uffici legali competenti». Ma i rifugiati a Goris, la prima cittadina vera e propria oltre la frontiera, raccontano delle storie agghiaccianti.
In ogni caso tutti sono convinti che non torneranno a casa. Diversi sfollati parlano di chi prima di partire ha dato alle fiamme la propria abitazione e l’immagine è di straordinaria coerenza con il contesto: anni e anni di sacrifici in fumo. Anche perché, sia chiaro, non parliamo di una regione ricca. Il Nagorno-Karabakh è una terra montuosa nel sud-ovest dell’Azerbaigian che da decenni è insanguinata dal conflitto etnico tra la maggioranza armena e il potere di Baku. Alla dissoluzione dell’Unione Sovietica le autorità dell’oblast del Nagorno-Karabakh cercano di staccarsi dall’autorità del governo azero, a cui la regione era stata sottoposta fin dall’inizio del secolo. Ne scaturisce una violenta guerra tra Azerbaigian e Armenia, intervenuta a difesa dell’enclave separatista. I filo-armeni vincono e occupano anche altri territori limitrofi dando vita alla «Repubblica dell’Artsakh», indipendente di fatto ma non riconosciuta quasi da nessuno, nemmeno dall’Armenia. Tale equilibrio resiste 30 anni fino a quando, nel settembre 2020 l’Azerbaigian lancia una poderosa offensiva, con il supporto strategico e militare della Turchia, e in 44 giorni riconquista gran parte delle terre perse trent’anni prima. Restano ai filo-armeni poche città, tra cui l’ex capitale separatista, Stepanakert e a vegliare sul cessate il fuoco viene inviato un contingente di pace russo. A collegare questi territori all’Armenia una sola via: il cosiddetto corridoio di Lachin, dal nome della cittadina di confine attraverso cui passava la strada.
Negli ultimi tre anni la situazione si è progressivamente aggravata. L’Azerbaigian, approfittando dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha lanciato diversi attacchi, fino a imporre un embargo di fatto alle aree ancora in mano ai filo-armeni del Nagorno-Karabakh. Giovedì 21 settembre 2023, con un’offensiva durata un solo giorno, le truppe di Baku hanno imposto la resa agli indipendentisti armeni. Tra le condizioni della tregua c’è «lo smantellamento di tutte le strutture separatiste, dall’esercito all’amministrazione». In altri termini, per la prima volta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la regione separatista azera a maggioranza etnica armena passerà sotto il totale controllo dell’Azerbaigian. È bastato un solo giorno di «operazione anti-terrorismo» da parte delle forze armate azere per convincere i vertici della Repubblica dell’Artsakh a cedere. Ma stavolta non si spera in una pacificazione per la regione che tenga conto delle differenze etnie presenti e di 30 anni di indipendentismo. Non siamo all’indomani della pace del 9 novembre 2020, che pure vide un trionfo di Baku. In questi giorni, e la coda interminabile di profughi in fuga da Stepanakert lo testimonia, si sta chiudendo un capitolo di storia. Per quasi trent’anni generazioni di armeni si sono battuti e sono morti per mantenere il controllo su una parte dei territori del Nagorno-Karabakh. Ora, invece, si completa il disegno del presidente azero, Ilham Aliyev, di riconquistare l’intera l’enclave separatista dell’Artsakh dalla quale l’esercito azero era stato malamente cacciato nella prima guerra del 1991-93.
Intanto, da parte armena, aumentano le denunce di abusi e sevizie perpetrati da parte delle truppe azere. Al momento l’unico ufficio internazionale aperto a Stepanakert è quello della Croce Rossa e da più parti si chiede al presidente Aliyev di permettere l’ingresso di osservatori internazionali che vigilino su quella che è la paura principale degli armeni oggi: il rischio che nella regione sia in atto una pulizia etnica.
Sabato Angieri