L’annus horribilis della democrazia israeliana

L’annus horribilis della democrazia israeliana

Benjamin Netanyahu, Primo Ministro di Israele dal 2009 quasi ininterrottamente, a seguito dell’attacco palestinese ha dichiarato lo stato di guerra e che l’esercito del paese (Tsahal) agirà con tutto il potere necessario per far fronte alla situazione che si è venuta a creare.
La realpolitik in questo caso è spietata: il Primo Ministro tenterà – è facile supporlo – di recuperare terreno nell’opinione pubblica e nella società israeliana dato che dalla rielezione dello scorso anno, dopo la nascita di quello che la stampa internazionale ha definito essere il governo più a destra della storia di Israele, ha subito varie e imponenti contestazioni. Il consenso è sceso a livelli piuttosto bassi e la società tutta si è mobilitata contro di lui a partire dall’inizio dell’anno, quando il contestato progetto di riforma del sistema giudiziario ha iniziato ad essere discusso in Parlamento (Knesset).

È bene riavvolgere il nastro e tornare al mese di febbraio, quando la protesta approda anche nelle istituzioni: il Parlamento era chiamato a dibattere attorno al pacchetto di leggi sulla giustizia. La revisione del sistema giudiziario, che ha mobilitato le proteste per 29 sabati consecutivi e portato 70mila persone in piazza pacificamente a Tel Aviv, che ha fatto incrociare le braccia a gran parte dei settori produttivi della società israeliana, era un punto centrale dell’iniziativa politica del Primo Ministro. Se in Italia Giuliano Ferrara su «Il Foglio» scriveva come non fosse tutto illogico nella riforma di Netanyahu, dall’altra parte della Manica il «Guardian» avvertiva che le proposte di legge approvate nella commissione parlamentare per la Costituzione la legge e la giustizia avrebbero avuto due risvolti: la prima quella del maggiore controllo da parte politica sulla nomina dei giudici della Corte suprema. L’altra avrebbe consentito a una maggioranza semplice della Knesset di annullare quasi tutte le sentenze della Corte stessa.
È bene ricordare che lo Stato di Israele non possiede una Costituzione scritta ma solo un insieme di Leggi fondamentali. Le problematiche conseguenti sono facilmente intuibili dal lettore.

Se la piazza ribolliva, il parlamento non era da meno: l’opposizione arabo-israeliana della sinistra comunista riunita nel gruppo Hadash-Ta’al denunciava quello che sarebbe stato lo stato di Israele con l’approvazione della Legge. In una seduta del 5 febbraio 2023 al deputato Ofer Cassif è stato impedito non solo di continuare a parlare dalla vicepresidente della Camera Nissim Vattori (Likud) ma è stato anche allontanato con la forza. Le opinioni contrarie non erano ben accette, con tutta evidenza. Così come non lo erano nemmeno all’interno della maggioranza. Fiamma Nirenstein sul «Giornale» in quella fase ha dato conto della cacciata del ministro della Difesa Gallant che si era espresso pubblicamente contro quell’insieme di leggi. Gallant lo sosteneva da destra, eppure a Netanyahu non è bastato il rapporto personale che aveva con l’ex ministro per poter interrompere quello politico.

La legge fondamentale voluta da Netanyahu è stata in parte rimodulata e in parte ritirata ma la prima sezione è stata approvata in luglio e l’estate appena trascorsa è diventata decisamente rovente. La ‘clausola di ragionevolezza’ della Legge riguardo i provvedimenti dei governi che favorirebbero comportamenti distorti (corruzione), nepotismo e scelta di persone con gravi precedenti penali per l’incarico di ministro è all’esame della Corte Suprema, così come gli svariati ricorsi giunti sul tavolo dei giudici. Lo scontro tra poteri non è fatto secondario: in discussione è il fondamento della democrazia liberale in sé. Potere esecutivo contro potere giudiziario, nonché la primazia di uno sull’altro. Non un affare da poco, per quella che in occidente è “l’unica democrazia della regione mediorientale”.

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