Il 16 gennaio il giornalista palestinese di Al Jazeera Wael Al-Dahdouh ha lasciato la Striscia di Gaza. Dopo 102 giorni di guerra e di lavoro sul campo il suo volto era diventato celebre in tutto il mondo non solo per i suoi servizi da una delle guerre più sanguinose degli ultimi decenni, ma per la sorte terribile che gli era toccata.
In diretta, mentre corrispondeva dalla Striscia bombardata durante i primi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti israeliani, aveva appreso della morte di 12 familiari, tra cui la moglie. Lui stesso ha rischiato la morte in diverse occasioni, anche in diretta, probabilmente guidato dall’idea che per mostrare ciò che sta accadendo a Gaza non si può agire diversamente. All’inizio dell’anno nuovo (7 gennaio) suo figlio, Hamza el-Dahdouh, anche lui giornalista di Al Jazeera, è rimasto vittima di un attacco aereo. Wael ha partecipato al suo funerale con la figlia Kholuod, che in un video in arabo su Instagram gli dice addio tra le lacrime. «Mio amato, anima della mia anima, Hamza, possa Dio avere misericordia su di te. Manda i miei saluti a Mamma, Mahmoud, Sham, Adam e tutti gli altri.»
Dall’inizio della guerra la Wael Al-Dahdouh ha perso altri due figli, la moglie, un nipote, e altri ventuno parenti – oltre al cameraman Samer Abu Daqqa, lasciato a sanguinare a morte nello stesso attacco del 15 dicembre che ha quasi ferito a morte el-Dahdouh. Le ambulanze giunte per soccorrerlo sono state bloccate dai soldati israeliani. Ora Wael si trova a Doha per sottoporsi a delle cure riportate proprio durante quell’attacco, secondo quanto dichiarato ad Afp,
Buona parte delle testimonianze dirette che il resto del mondo sta ricevendo della devastazione in corso in Palestina provengono dalla stampa locale. Tanto dai giornalisti ufficiali, associati principalmente ad al-Jazeera, quanto dalle telecamere degli smartphone dei civili, che raccontano da vicino gli aspetti più minuti della quotidianità. Raccontano le morti, gli attacchi, i trasferimenti forzati a piedi, e i modi con cui riescono a portare a termine le faccende quotidiane: procurarsi da mangiare, caricare i dispositivi elettronici, scaldarsi la notte, anche solo intrattenersi. Oltre a mantenere in vita i ricordi del loro Paese, della loro quotidianità, prima di perdere la propria casa.
Tra i civili di Gaza adulti, i giornalisti sono quelli più a rischio. E’ difficile stabilire un numero preciso tra i colleghi morti, per il Committee to Protect Journalists dal 7 ottobre a oggi sono 82, per il Times of Gaza sono oltre 116. E nello scontento crescente, molti colleghi preferiscono farsi da parte e cercare sicurezza.
Il 7 gennaio, a seguito della morte di Hamza el-Dahdouh, un altro giornalista, Anas el-Najar, ha deciso di interrompere i suoi reportage indefinitamente. «La ricerca di sicurezza con la mia famiglia è cosa mille volte migliore della ricerca di notizie da comunicare a un mondo che non conosce il significato di empatia o umanità». Quelle parole sono ripetute tre giorni dopo dal collega Ismail Jood, anch’egli nell’atto di deporre il giubbotto della stampa.
«Abbiamo documentato crimini, massacri e il genocidio che stiamo affrontando più che a sufficienza negli ultimi 96 giorni. Tristemente non c’è stata un’azione forte per porre fine a quest’aggressione, che ha divorato cittadini, giornalisti, dipendenti medici, attivisti, e anche pietre e alberi. Siamo stati condannati all’esecuzione e ciascuno di noi sta aspettando il suo turno. Novantasei giorni di lutto e dolore per aver perso i nostri amici, le nostre case, i nostri cari e la nostra ricchezza. L’occupazione di Israele ci ha tolto tutto, ci rimangono alcuni vestiti che a malapena ci scaldano, viviamo in tende non abitabili per gli animali. […] Io sono il padre di due bellissimi bambini. Sono il primogenito dei miei genitori hanno aspettato venticinque anni per avermi per problemi di procreazione […] Sono sopravvissuto alla morte numerose volte e mi sono messo in pericolo per mostrarvi la situazione a terra, e credo che per ora basti così».
Tra i giornalisti palestinesi ancora in attività, alcuni dei più seguiti sono giovani. Plestia Alaqad ha ventidue anni: ex travel blogger determinata a mostrare un’immagine più moderna e pacifica della Palestina. Ora trasferita in Australia tramite un parente, realizza comunque video dedicati alla situazione nel suo paese, chiedendo il cessate il fuoco e la decolonizzazione. Motaz Azaiza, proclamato “Uomo dell’Anno” dalla testata GQ Middle East, ne ha ventiquattro. La collega e amica Hind Khoudary, ex attivista di Amnesty International, ventinove. Bisan Owda, ex collaboratrice dell’Unione Europea per le donne, venticinque. E non sono nemmeno i più giovani.
Abod, un altro cronista su campo, ha diciassette anni. Ma ancora più giovane è Lama Abu Jamous, una bambina di 9 anni considerata da alcuni come la giornalista più giovane del mondo. Lama ha iniziato a raccontare ciò che gli accadeva intorno nel pieno di un bombardamento. Ora realizza video con un giubbotto antiproiettile troppo grande per lei, e con mezzo milione di followers al suo seguito, la bambina intervista e fotografa gli amici e conoscenti che incontra durante la sua diaspora da Gaza, a Khan Yunis, e poi a Rafah. Una bambina socievole e loquace, nelle parole di suo zio Ahmad Abu Jamous, a sua volta figlia di un giornalista – anche lei, come i colleghi adulti, ha incominciato la sua cronaca con vlog casalinghi sui suoi social media. Intervista soprattutto i bambini, i suoi coetanei, che come lei stanno perdendo la loro infanzia.
«Il mio messaggio al mondo è di porre fine alla guerra e ai bombardamenti. Ci sono bombardamenti dovunque andiamo. Ci serve una zona sicura, non vogliamo la guerra. Parlano solo di guerra, guerra, guerra. Noi vogliamo una tregua».
Flaminia Zacchilli