Ci sono degli argomenti che stimolano una riflessione su cui però è necessario muoversi con cautela, come nel caso del suicidio assistito e /o dell’eutanasia, in cui il limite tra psichico e fisico richiede attenzione e delicatezza.
L’indifferenza nei confronti di temi così complessi non dovrebbe essere una possibilità poiché dentro ad affermazioni come “ognuno fa come gli pare”, che ostentano una “libertà” a tutti i costi, c’è la volontà di chiudere gli occhi rispetto a problematiche che riguardano una pluralità di persone. Quando queste problematiche emergono, proprio per la loro natura complessa in quanto profondamente umana, creano scalpore e sono oggetto di larga discussione.
Ho letto mesi fa titoli come questo: “Belgio, ragazza morta d’eutanasia a 23 anni per depressione: sopravvissuta alla strage di Bruxelles, non si era mai ripresa”. Un titolo che propone un’immagine di quanto accaduto, uno tra i tanti articoli che narrano alcune notizie in merito alla morte di Shanti De Corte e mi è tornato evidente che in alcuni paesi l’eutanasia sia legale senza alcuna differenziazione, eppure la realtà umana, anche psichica, di ciascuno è unica a prescindere dalla dinamica fisica in essere che potrebbe rientrare in una casistica. Leggendo questo, come altri titoli, mi si propone che non morire in una tragedia, come la strage di Bruxelles, possa indurre, chi sopravvive, a una depressione che fa morire o che giustificherebbe il voler morire, a 23 anni.
Il medico di Shanti l’ha accompagnata a morire, nonostante la dimostrata curabilità della sua malattia, con l’avallo dei suoi familiari, risolvendo così una questione probabilmente più complessa, come aiutarla a guarire, a vivere.
Pensando poi ai casi Welby e Fabo che riportavano lesioni organiche e condizioni permanenti, oggettivamente impossibili da trattare per la medicina, non ho potuto non considerare la netta distinzione tra la realtà fisica e quella psichica per poi riflettere sull’impossibilità di determinare valida una soluzione materiale ad una problematica psichica.
L’eutanasia agita come soluzione ad un problema psichico suona come una superficiale recisione per far sparire una realtà, ad oggi curabile, come quella della malattia mentale.
Vite storte, risultate da un conseguirsi di barbarie e tragedie, hanno come unica soluzione la morte?
Quando si nasce non si sceglie di farlo, non si è soggetti capaci di agire una tale decisione ma si arriva ad esistere grazie ad un processo biologico, naturale.
Si può morire per un’infinità di circostanze, di concause, di incidenti ma scegliere di morire e come farlo è un tema, come già chiarito, assai complesso.
È appurato che ci siano condizioni fisiche che gestite nel rapporto medico paziente possano motivare un’interruzione della vita, perché fattivamente, nonostante la velocità del progresso, incurabili.
Queste fattispecie, come il caso Dj Fabo o Welby in cui c’era comunque vita e pensiero, condannerebbero il paziente ad una vita dolorosa, infelice, in vista di ore di dominante sofferenza e l’elemento discriminante, fondamentale, che motiva l’accompagnamento alla morte in casi come quelli sopra citati, è l’oggettiva incurabilità.
Invece in casi in cui il corpo è sano o curabile e viene presentata una richiesta di morte, è necessario accertarsi della sanità mentale del paziente, perché dare per assunto che in un corpo fisicamente sano anche la psiche lo sia è un grosso rischio. Uno degli assunti a cui si aggrappa la persona affetta da disturbo mentale (per resistere al guarire) è la sua incurabilità che, pertanto, giustificherebbe un’interruzione della vita. E lasciare nelle mani di una persona psichicamente non sana la scelta su un tema tanto importante e delicato, prima che la suddetta sia guarita, implica una complicità con il pensiero proposto dal malato.
Non penso si possa parlare di libertà di scegliere per sé, in casi di evidente, dichiarata o diagnosticata malattia mentale. Difficilmente può esserci libertà di scelta senza un’identità e per realizzare un’identità è necessario che ci sia sanità mentale. “È vero che la follia esiste ma è anche vero che chi è folle, non sa scrivere” scrive Alda Merini. Il caso di Shanti De Corte trova nella realtà territoriale un’insindacabile idea di legalità, poggia le sue ragioni sul diritto di Stato, ma permette comunque un’analisi su un corrispettivo umano e al contempo obiettivabile. Il suddetto episodio rappresenta l’asse portante in cui il rifiuto al trattamento non dovrebbe poter essere accettato in quanto potenzialmente lesivo per la salute del paziente e poiché questa realtà, apparentemente individuale, è fatto sociale e politico, si può interpretare come lesivo anche nell’interesse della collettività.
La depressione, a dispetto di quanto tacitamente sostenuto dall’assetto culturale dominante che viene proposto, è curabile grazie alla psicoterapia e ai farmaci anche se l’approccio così insufficiente alla cultura della curabilità racconta come impossibile l’affrontare e il risolvere le sofferenze psichiche con la cura, istillando un senso di perdita di speranza che porta a “sofferenze psicologiche insopportabili”. La rinuncia alla vita è un aspro fallimento e Shanti è solo un esempio tra i centinaia uomini, donne e giovani che rappresentano questa frana culturale. C’è un’assenza di risposta quando essa si traduce un disperato grido d’aiuto come una richiesta di morire.
Finalmente si manifesta crescente l’esigenza di risposte in merito alla possibilità di occuparsi della salute psichica e dopo due anni di pandemia la pericolosità del non farsi domande e del non occuparsi di dove andare a chiedere risposte ha sollevato un movimento dal nome “chiedimi come sto” cui promotori sono la Rete degli studenti medi e l’Unione degli universitari, che hanno sentito la necessità di portare l’attenzione sul tema della salute psichica e il benessere psicologico delle giovani generazioni. Nella speranza fondata di poter stare bene.
Carlotta Rondana