«Questo accordo è un crimine. Farà del male a degli esseri umani che hanno diritto a chiedere asilo nel paese in cui sbarcano». Commenta così il protocollo tra Italia e Albania Altin, 50 anni. Ne aveva appena 17 quando partì da Valona alla volta dell’Italia. Il 6 marzo 1991, dopo un viaggio in mare su un barcone affollato, sbarcò a Monopoli, in provincia di Bari. Tra i primissimi profughi a partire, è protagonista e testimone del primo importante flusso migratorio verso l’Italia. Altin ha una pessima opinione dell’accordo tra Giorgia Meloni e il Primo ministro albanese Edi Rama stipulato lo scorso novembre e che si sta concretizzando in questi giorni.
Il 28 marzo è infatti scaduto il termine per partecipare al bando di gara che prevede l’assegnazione di 34 milioni di euro all’anno (escluse le spese di trasporto, assistenza sanitaria e stipendi) per l’apertura di tre centri per i migranti che sorgeranno in Albania, a Shëngjin e a Gjadër, entrambe facenti parte del comune di Lezhë.
Territori che Alexia, figlia di Altin, conosce bene. La giovane ha 25 anni ed è nata in Italia, ma ha trascorso la sua prima infanzia in Albania con i nonni e i cugini. «Era un’usanza comune» racconta. Si faceva con la speranza che, un giorno, la famiglia sarebbe potuta tornare nel paese d’origine. È lei, invece, a venire in Italia a frequentare la scuola, dove la sua famiglia sceglie di restare. Oggi Alexia è ricercatrice e attivista di Zanë Kolektiv, collettivo fondato nel 2023 da alcune studentesse albanesi dell’Università di Padova con lo scopo di offrire una rappresentazione autentica della loro comunità.
«Le due aree sono situate a breve distanza l’una dall’altra» spiega Alexia. «Shëngjin è una vivace città costiera, affollata di turisti durante la stagione estiva». Secondo il protocollo, qui verrà costruito l’hotspot dove si espleteranno le procedure di identificazione e screening dei naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi italiane. Coloro che saranno in possesso dei requisiti resteranno qui. Gli altri verranno spostati a Gjadër, un’area montuosa dell’entroterra, ex base militare dei tempi dell’Urss. «Si racconta che un tempo fosse un luogo misterioso, con un labirinto di tunnel sotterranei» racconta Alexia. «Adesso è in disuso, ma ancora per poco». Qui sorgeranno infatti il secondo hotspot, che ospiterà fino a 880 persone, e il Centro di permanenza per i rimpatri, dove potranno essere reclusi fino a 144 individui, del tutto simili ai Cpr italiani. Nel complesso, secondo l’accordo, fino a quasi 40.000 persone all’anno potranno essere condotte in queste strutture.
«Fin dal mese di novembre, quando è stato stipulato l’accordo, sono stati moltissimi gli albanesi che hanno manifestato il loro dissenso» spiega la giovane. Cortei contro l’accordo con il governo italiano hanno sfilatoa Shëngjin e a Tirana, mentre alcuni giovani si sono accampati di fronte al comune di Lezhë e la protesta è stata repressa dalla polizia. Secondo alcuni gruppi di attivisti e collettivi di giovani, l’accordo è in contraddizione con il diritto internazionale e con la Costituzione del loro Paese. Di recente, anche Amnesty International ha avanzato dei dubbi in merito a quanto sta avvenendo in Albania, commentando che «secondo il diritto internazionale, la detenzione automatica è intrinsecamente arbitraria e quindi illegale». Eppure, all’indomani dell’accordo con l’Albania, Ylva Johansson, commissaria europea degli Affari interni, ha dichiarato che l’accordo non viola il diritto comunitario «perché ne è al di fuori», visto che l’Albania non fa parte dell’Unione Europea e le attività avverranno in acque internazionali.
Tuttavia sono ancora molti i nodi irrisolti: se saranno esclusi dall’invio in Albania i vulnerabili (donne incinte e minori), ci si domanda in base a quale criterio verranno individuati. L’avvocata Amarilda Lici dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) sottolinea infatti: «Molte vulnerabilità, meno evidenti, emergono con molta difficoltà». Non solo: secondo Lici, quando dei naufraghi salgono su una nave italiana, si trovano di fatto in territorio italiano. «Il fatto che i migranti vengano portati in un altro Paese, come l’Albania, si potrebbe configurare come un respingimento. Una volta effettuato un salvataggio, l’operazione si dovrebbe chiudere con lo sbarco in un porto sicuro e con l’attivazione di tutte le procedure previste dal Paese che ha soccorso i naufraghi». Proprio come previsto dalla Convenzione di Amburgo del 1979. E Shëngjin si trova a tre giorni di navigazione da Lampedusa.
Lo stesso protocollo siglato tra Rama e Meloni presenta delle anomalie: secondo l’articolo 7, il personale italiano impiegato in Albania sarà esente da visto, permesso di soggiorno e altre formalità previste dalla legislazioni albanese per chi soggiorna sul suo territorio per più di novanta giorni. Inoltre, gli italiani saranno immuni da qualsiasi forma di detenzione, mentre gli albanesi non avranno diritto di accesso in questi centri. «Questa cosa è particolarmente preoccupante» commenta Alexia. «Quella porzione di Albania sarà, di fatto, un’estensione fisica dell’Italia. La voce della comunità albanese che ha espresso dissenso non è stata ascoltata. Vediamo in questo accordo una logica neocolonialista italiana e una violazione dei diritti fondamentali degli individui in cerca di protezione».
Una storia che riguarda particolarmente da vicino la popolazione albanese, i cui flussi migratori non sono mai terminati. Secondo un rapporto di The Migration Observatory, in Gran Bretagna i richiedenti asilo albanesi rappresentano il 16% del totale. Nel 2010 le richieste erano pari a 200, nel 2022 sono arrivate a 16.000. L’associazione britannica spiega che i migranti albanesi usano delle piccole barche per oltrepassare la Manica, esattamente come fanno coloro che attraversano il Mediterraneo e che, intercettati dalle navi italiane, rischieranno di concludere il loro viaggio nel CPR di Gjadër.
Quando, a novembre, Edi Rama ha affermato che «Se l’Italia chiama, l’Albania c’è» e ha parlato di “dovere” e “riconoscenza” dell’Albania verso l’Italia, Altin, il padre di Alexia, è trasalito: «Ai tempi, i profughi albanesi venivano spesso rimpatriati con l’inganno». Magari con la scusa di una gita. «Ricordo che ad alcuni dicevano: “Sali su questo autobus che andiamo a Venezia” e invece li rimpatriavano. Io sono stato fortunato: ero minorenne e sono rimasto in Italia». Tuttavia, l’uomo ha vissuto nelle tendopoli e non ha avuto la strada spianata: «Ho dovuto affrontare tante difficoltà: il clima in Italia verso gli albanesi era molto ostile». Basta leggere i titoli dei giornali italiani di quegli anni per rendersi conto di come si parlava degli immigrati albanesi. “Emergenza, calamità, profughi all’assalto”: una narrazione che, trentatré anni dopo, non è cambiata.
Serena Ganzarolli