Il Dl Nordio non risolve i gravi problemi delle carceri italiane

Il Dl Nordio non risolve i gravi problemi delle carceri italiane

Foto di Cameron Casey

«Nel carcere si concentrano le contraddizioni e le disuguaglianze sociali perché moltissimi dei detenuti sono stranieri e poveri. Materialmente e culturalmente.» Arianna (nome di fantasia, ndr) parla con voce calma, ma quando riflette sul luogo in cui trascorre le sue giornate è un fiume in piena. Da 15 anni insegna Italiano agli stranieri nelle carceri della Lombardia. «Le celle sono spazi di “cattività”. E la parola stessa è ambivalente: tiene i cattivi o rende cattivi?».

Tra le varie carceri, Arianna ha prestato servizio anche all’istituto penitenziario San Vittore di Milano che, secondo i dati del garante nazionale dei detenuti, è tra i più sovraffollati d’Italia, con punte del 235%. «Vivono in 6 in una cella di pochi metri quadri. Il bagno interno è in realtà una latrina. Le docce sono condivise, spesso situate nei corridoi per cui soggette a sbalzi di temperatura» spiega l’insegnante. «I luoghi sono strutturalmente malmessi, anche se si cerca di renderli più umani».

L’umanizzazione del carcere sarebbe, secondo quanto dichiarato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, lo scopo del decreto legge Carcere sicuro approvato il 4 luglio. Frutto di una lunga trattativa interna alla maggioranza, è suddiviso in 16 articoli dove non si affronta la questione del sovraffollamento (61.049 i detenuti a fronte di una capienza di 51.178 posti), materia su cui l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo il ministro Nordio, la soluzione al problema sarebbe nel «portare a compimento gli accordi con Stati esteri in modo da far scontare ai detenuti stranieri la pena nei loro Paesi d’origine».  Nodo alla gola, l’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione presentato dall’associazione Antigone, evidenzia tuttavia come gli stranieri in carcere siano pari al 31% del totale della popolazione carceraria.

Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione, sottolinea in questo senso come le misure adottate non incideranno sul sovraffollamento in carcere, causato soprattutto da un aumento dei nuovi reati e delle pene introdotte dal governo Meloni. In effetti, i provvedimenti del Dl Nordio vertono su altri aspetti: l’assunzione di 1000 agenti di polizia penitenziaria e l’aumento delle telefonate mensili per le persone detenute da 4 a 6 al mese. «Perché mille agenti e non altrettanti educatori o psicologi?» commenta Arianna, che continua: «Il numero di telefonate ai familiari resta comunque irrisorio: i detenuti possono fornire solo due numeri di cellulare. Spesso devono scegliere se chiamare la mamma o la moglie e i figli nella stessa settimana, per un tempo di circa 10-15 minuti. Alla fine rinunciano a quell’unica telefonata per chiamare l’avvocato». L’articolo 24 delle regole penitenziarie europee ricorda d’altronde che i detenuti devono comunicare il più spesso possibile con l’esterno.

I 56 suicidi da inizio anno (uno ogni 3 giorni) e le 6 guardie carcerarie che da gennaio si sono tolte la vita, l’ultima delle quali di appena 36 anni, non sorprendono a fronte delle condizioni disumane negli istituti penitenziarie. Commenta l’insegnante: «Tutti coloro che lavorano a vario titolo nelle carceri dovrebbero poter godere di un supporto psicologico, di forme di supervisione e gruppi di parola».

Lo stesso ministro Nordio ha definito “brutale” il sistema carcerario. Brutalità che giustificherebbe il trasferimento di «minori e tossicodipendenti dal carcere alla comunità di accoglienza». Eppure è stata proprio l’approvazione del cosiddetto “Decreto Caivano” del 2023 a causare l’aumento del 30% del numero di minori in carcere. In merito, l’associazione Antigone denuncia «l’uso eccessivo di psicofarmaci nelle carceri minorili. La spesa pro capite in particolare degli antipsicotici (…) è aumentata in media del 30% tra il 2021 e il 2022, ultimo dato disponibile. Gli psicofarmaci vengono troppo spesso utilizzati come strumento di gestione – e di neutralizzazione – dei ragazzi con problemi di disagio sociale e comportamentale». Modalità di gestione già in uso nei Centri di Permanenza per i Rimpatri.

foto di Plato Terentev

Per gli stranieri poveri e senza mezzi che non finiscono in un CPR, l’assenza di strategie di integrazione efficaci si fa sentire. In carcere, Arianna ritrova un suo ex studente, allora minore straniero non accompagnato, che aveva conosciuto in un Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti (CPIA) dove aveva insegnato anni prima. «Quando mi ha riconosciuta mentre passavo nel corridoio si è nascosto» racconta. «Dopo qualche giorno mi ha salutato. Con il suo italiano stentato mi ha spiegato che, uscendo dalla comunità al compimento del diciottesimo anno stava cercando casa e, da qualche notte, dormiva per strada». Qualcuno gli aveva consegnato 1000 euro in contanti e gli aveva detto che se avesse venduto droga li avrebbe guadagnati ogni giorno. «Quando ha pensato al viaggio in barcone, ai suoi genitori, a quello che poteva fare con quei soldi, ha pensato di spacciare una o due volte e poi smettere. Ma siccome non era capace, l’hanno arrestato».

Dopo anni trascorsi a insegnare in carcere, Arianna ha le idee chiare: «Il carcere non favorisce il reinserimento sociale se non in pochissimi casi, e anzi rischia di aumentare la frustrazione e la rabbia di molti detenuti, soprattutto dei più giovani, che poi rischiano di non uscire dal circolo vizioso nel quale sono entrati».

Sono i dati del Cnel di aprile a confermare che la recidiva si attesta al 60%. “Sei detenuti su 10 sono già stati in carcere almeno una volta”, si legge nel comunicato.

Secondo Ilaria Salis, eurodeputata per Alleanza Verdi Sinistra, reduce da 15 mesi nelle carceri di Budapest, occorre ricercare una soluzione alternativa. «Le strade da percorrere lungo la via di un un nuovo realismo abolizionista, necessario a partire da subito, sono fondamentalmente due» sostiene Salis «Da un lato, sperimentare sempre più forme di giustizia riparativa oltre il paradigma della reclusione, e rafforzare quelle già esistenti. Dall’altro intervenire in modo strutturale sulle grandi questioni sociali e politiche che rappresentano le vere cause alla base del problema».

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