Uscito nelle sale italiane il 28 agosto, Maxxxine rappresenta la conclusione della trilogia – iniziata con X – a Sexy Horror Story e continuata con il prequel Pearl – scritta diretta e montata interamente dal cineasta statunitense Ti West. Al centro della pellicola vi è nuovamente Maxine, la quale trasferitasi a Los Angeles dopo i tragici avvenimenti del primo film, si ritrova a dover combattere con le logiche e le assurdità che infestano la babilonia di Hollywood. La protagonista, infatti, è ancora mossa dal suo desiderio morboso di divenire una stella del cinema nonostante la reticenza estrema di produttori e registi causata dalla sua fama nel campo delle pellicole a luci rosse. A rendere il percorso di Maxine verso la celebrità ancor più difficile si inserisce l’apparente durezza morale dell’America Reaganiana degli anni ’80, la censura artistica che ne conseguì e una serie di omicidi misteriosi irrisolti operati, secondo la stampa, da parte del cosiddetto Night Stalker (serial killer realmente esistito). All’interno di questa cornice narrativa la protagonista è costretta inoltre a scoprire l’identità di un minaccioso uomo misterioso che sembra conoscere il passato violento della ragazza.
Come è stato anche nei precedenti film della trilogia, in quest’opera Ti West rende di nuovo la citazione l’elemento cardine della sua messa in scena. Gli anni ’80, seguendo un filone nostalgico che al giorno d’oggi probabilmente è arrivato a livelli esasperati ed esasperanti, diventano una vera e propria lente attraverso cui inquadrare la nuova storia di Maxine. Tuttavia, le fonti e gli omaggi di Ti West non si esauriscono solamente nella sacralità laica delle VHS, dei Walkman e di tutta l’estetica di quegli anni, figlia prevalentemente dell’home video e della televisione. In Maxine trovano spazio elementi diversissimi tra loro: dalle tinte noir dei classici hollywoodiani e dalle sue declinazioni più moderne rappresentate sullo schermo in modo esplicito tramite un richiamo diretto al Chinatown di Polanski, all’eterno Psycho, già ampiamente citato nelle opere precedenti. Il pastiche estetico e narrativo che ne consegue, seppur gradevole e ben realizzato, appesantisce di molto l’opera, la quale, oltre a soffrire di una trama debole e in parte prevedibile, non riesce a cogliere nel segno nella maggior parte delle scene cardine; il peso delle citazioni e dello stile multiforme diviene in ultima battuta un ostacolo al pieno gradimento del film.
Ti West sembra dunque perdere il timone della narrazione in un mare di continui rimandi e giochi cinematografici che nonostante le criticità non mancheranno comunque di divertire lo spettatore.
Sebastian Angieri