L’Unione europea guarda alla “linea Meloni”

L’Unione europea guarda alla “linea Meloni”

Al Consiglio europeo di giovedì, i leader europei hanno discusso di diversi temi cruciali. Dai conflitti in Ucraina e Medio Oriente alla questione migratoria, passando per la competitività economica e i cambiamenti climatici. Tuttavia, è su un punto che sembra emergere un consenso trasversale: la necessità di rafforzare la protezione delle frontiere esterne e interne e intensificare le politiche di rimpatrio. Come raggiungere questi obiettivi, però, rimane un tema divisivo.

Si è deciso tutto nella prima giornata del vertice, che ha portato all’approvazione delle conclusioni sulla migrazione, in cui i leader dei 27 Paesi hanno chiesto «un’azione risoluta a tutti i livelli per facilitare, aumentare e accelerare i rimpatri dall’Unione europea», utilizzando tutti gli strumenti a disposizione, dalla diplomazia allo sviluppo, fino al commercio e ai visti oltre a fare esplicito riferimento alla necessità di trovare «nuovi modi per prevenire e contrastare l’immigrazione». In questo contesto, è emerso un chiaro riferimento al protocollo Italia-Albania, un modello che ha catturato l’attenzione di diversi Stati membri.

Tra le “nuove modalità” è infatti emersa la possibilità di istituire centri di rimpatrio al di fuori dell’Ue, con i Paesi Bassi già interessati all’Uganda e la Danimarca che sta collaborando con il Kosovo. A guardare la dichiarazione finale del vertice sul capitolo migrazione, infatti, l’unico elemento di vera novità è la «progettazione di modalità innovative per contrastare l’immigrazione illegale», con la proposta, per ora solo verbale, di creare hotspot esterni nei Paesi terzi vicini ai confini dell’Ue, dove verrebbero elaborate le richieste di asilo. L’idea di gestire offshore le richieste di asilo, o di istituire “hub di rimpatrio” in Paesi terzi, ha guadagnato terreno nelle ultime settimane a seguito del successo dell’estrema destra nelle elezioni europee di giugno che hanno messo in allarme i leader tradizionali in tutta Europa. Alcuni Stati vedono in questa soluzione un modo efficace per risolvere il problema dei rimpatri, di cui solo una piccola parte effettivamente avviene.

Questa idea trova sostegno anche dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha evidenziato il potenziale del protocollo Italia-Albania come un’esperienza da cui trarre lezioni utili. «Con l’avvio dell’operatività del protocollo Italia-Albania potremo trarre insegnamenti da questa esperienza anche nella pratica», scriveva nella lettera presentata proprio alla vigilia del vertice di giovedì. Von der Leyen ci ha tenuto però a sottolineare che queste iniziative devono rispettare «i principi e i valori dell’Ue, il diritto internazionale e i diritti fondamentali». Tuttavia, questi principi non sono sempre stati osservati dagli stessi Stati membri, come Grecia e Croazia, che dovrebbero applicare pienamente le normative europee e internazionali in materia di asilo, ma sono state ripetutamente accusate di respingimenti illegali e abusi contro i migranti. Anche la Bulgaria è stata al centro di queste violazioni, come evidenziato da due inchieste condotte da BIRN e Solomon, che hanno dimostrato che gli ufficiali di Frontex erano a conoscenza dei respingimenti in Bulgaria ma li hanno ignorati. Nonostante ciò, la Bulgaria è stata ricompensata politicamente e finanziariamente dall’Unione europea per aver rafforzato i controlli alle frontiere “a qualsiasi costo”.

Il resto delle conclusioni  si limitano a riaffermare principi già consolidati, come la necessità di accelerare i rimpatri e lavorare sulla “dimensione esterna” del fenomeno migratorio, cercando accordi con Paesi di origine e transito per fermare i migranti prima che raggiungano l’Europa e «l’importanza di attuare la legislazione europea adottata e quella in vigore» e quindi il nuovo patto di immigrazione e asilo che entrerà in vigore a giugno 2026 e il regolamento di Dublino in forza fino a quel momento.

Nel mezzo, Meloni ha esortato i leader dell’Ue a rivedere anche la loro politica sulla Siria, affinché i rifugiati siriani possano «tornare a casa volontariamente, in modo sicuro e sostenibile». L’Italia, insieme ad altri Paesi, spinge da tempo per normalizzare i rapporti con la Siria, interrompendo una lunga frattura diplomatica iniziata nel 2011 dopo che la violenta repressione dei manifestanti da parte del dittatore Bashar al-Assad sfociò in una sanguinosa guerra civile, con il suo governo accusato anche di aver torturato e utilizzato armi chimiche sul suo stesso popolo. Tuttavia, questa strategia ha sollevato dubbi tra chi teme che la stabilizzazione dei legami con il regime di Assad possa facilitare le deportazioni mettendo ulteriormente a rischio i diritti dei migranti.

La dimensione esterna della politica migratoria

Sebbene le cifre odierne siano ben lontane da quelle del 2015, il tema migratorio continua a dominare l’agenda politica di molti Paesi dell’Ue, influenzando elezioni e rafforzando i partiti di estrema destra. In passato, diversi leader europei si erano opposti a politiche simili, il più recente è il controverso accordo tra il Regno Unito e il Ruanda. Tuttavia, cresce ora nell’Unione un sostegno per strategie simili, soprattutto alla luce del brusco spostamento a destra nelle cancellerie europee.  Anche la Germania, una volta considerata una delle voci più liberali in tema di migrazione, ha adottato misure più restrittive, come il ripristino dei controlli alle frontiere, sospendendo temporaneamente la libertà di movimento prevista dall’accordo di Schengen, probabilmente per prevenire un contraccolpo elettorale in vista delle prossime elezioni. Francia, Danimarca, Austria e Svezia stanno seguendo percorsi analoghi, mentre in Polonia – che si avvicina alle elezioni – il primo ministro Donald Tusk sta valutando la sospensione temporanea dei diritti d’asilo per chi attraversa il confine con la Bielorussia, una mossa che molti considerano una violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Anche la Finlandia ha adottato misure simili lungo la sua frontiera con la Russia, sospendendo temporaneamente tali diritti a luglio.

Nella lettera presentata al Consiglio von der Leyen delineava di conseguenza una linea di dieci punti chiave per «affrontare le nuove sfide e colmare le lacune rimanenti» con priorità che vanno dall’accelerazione dell’attuazione del controverso Patto sulla migrazione e l’asilo all’implementazione di  «nuove partnership globali con Paesi terzi chiave» – uno dei più recenti è quello con l’Egitto – seguendo come modello il Memorandum con la Tunisia, elogiato recentemente da von der Leyen, così come la cooperazione con le autorità libiche, nonostante le numerose denunce di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza tunisine e libiche. Secondo la Presidente, il calo degli arrivi irregolari nel Mediterraneo centrale è dovuto proprio a queste intese, stabilite dal 2016 a oggi, con Paesi come Turchia, Marocco e Mauritania, oltre ai già citati Libia, Egitto e Tunisia. Altri accordi, come quello con il Libano, hanno l’obiettivo di prevenire eventuali aumenti di flussi migratori in futuro, e si prospettano potenziali accordi con l’Algeria e il rafforzamento di quelle già esistenti. Si tratta di Paesi con un record discutibile in termini di rispetto delle norme del diritto internazionale riguardanti migranti e richiedenti asilo.

Da un certo punto di vista, si può dire che è vero che questi accordi hanno prodotto risultati, ma se si assume il punto di vista di chi li ha promossi. Gli arrivi via mare da Paesi come Turchia, Libia e Tunisia, per esempio, non sono più tornati ai livelli pre-accordi. Tuttavia, le conseguenze di queste politiche sono state enormi e spesso poco raccontate, in parte perché accadono in contesti dove il lavoro di giornalisti e attivisti per i diritti umani viene fortemente ostacolato. In Libia, i migranti intercettati in mare sono rinchiusi in centri di detenzione, dove subiscono torture e stupri. In Tunisia, migliaia di migranti sono stati arrestati dalle forze di sicurezza e abbandonati nel deserto, senza cibo né acqua. In Turchia, i profughi siriani, che l’accordo del 2016 con l’Ue mirava a trattenere nel Paese,  continuano a subire discriminazioni e a vivere come cittadini di “serie B”. Inoltre, oltre a infliggere sofferenze fisiche e psicologiche ai migranti, questi accordi hanno rafforzato politicamente ed economicamente regimi autoritari e gruppi armati coinvolti in conflitti civili, come accade in Libia.

Nelle conclusioni del vertice, la Commissione ha inoltre annunciato la sua intenzione di presentare proposte legali volte ad aumentare le espulsioni delle persone a cui è stato negato l’asilo e a cui è stato ordinato di tornare nel Paese d’origine, attualmente effettuate solo per una persona su cinque. «I rimpatri rappresentano l’anello mancante della nostra politica migratoria», ha dichiarato alla fine del summit il primo ministro greco, Kyriákos Mitsotákis. Questo era un altro punto chiave emerso dalla lettera di von der Leyen e la decisione di seguire questa strada segue l’appello di 17 Stati membri, inclusa l’Italia, che hanno richiesto un «cambio di paradigma» nella gestione delle deportazioni. Questi Paesi hanno chiesto un inasprimento delle regole per chi “non ha diritto” a rimanere nell’Unione e una maggiore cooperazione tra gli Stati membri. Nella sua lettera, von der Leyen sembra rispondere a queste richieste, promettendo di presentare una legge  «che definisca chiari obblighi di cooperazione per il rimpatriato e semplifichi efficacemente il processo di rimpatrio». Non a caso, a fine vertice, la Commissione ha affermato che riesaminerà «entro il prossimo anno il concetto di Paesi terzi sicuri designati».

 

Voci contrastanti

Fortunatamente non tutti i leader europei condividono lo slancio favorevole verso il cosiddetto “modello Albania”. Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno espresso riserve, con alcune nazioni, come Lussemburgo e Irlanda, che si sono addirittura dissociate. Scholz ha sottolineato che «dobbiamo garantire protezione a coloro che ne hanno bisogno, e questo continueremo a farlo», ma ha anche ribadito la necessità di «attuare più rapidamente il sistema comune europeo di asilo», precisando però che «non tutti possono venire». La posizione francese appare divisa: se da un lato il primo ministro Michel Barnier non ha escluso che Parigi possa stringere accordi simili a quello tra Italia e Albania, dall’altro lato Macron ha affermato che, sebbene ascolti «molti commenti su questo o quel modello di gestione migratoria», l’unica soluzione efficace di fronte all’immigrazione irregolare è «un approccio europeo, pragmatico ma rispettoso dei nostri valori». Ha inoltre avvertito che, storicamente, «altri modelli non hanno dimostrato la loro efficacia» e che «l’Europa ha subito un blocco quando i Paesi hanno agito unilateralmente, senza solidarietà».

In questo contesto, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez si distingue come uno dei pochi leader a mantenere una posizione favorevole alla migrazione, ed è l’unico a essersi chiaramente opposto alla creazione di centri offshore. Dopo il vertice, Sanchez ha ribadito la sua contrarietà, dichiarando che la Spagna «non sostiene queste formule che non risolvono i problemi e ne creano altri. Siamo per una visione più ampia, favorevole alla collaborazione con i Paesi d’origine e alla promozione della migrazione regolare».

Anche Mitsotákis ha manifestato scetticismo riguardo all’idea di estendere il modello italo-albanese a tutta l’Unione. Pur riconoscendo la necessità di «pensare in modo innovativo per affrontare questa sfida urgente», ha dichiarato al Financial Times l’importanza di rafforzare la migrazione legale, accanto a misure volte a ridurre gli arrivi irregolari. Allo stesso modo, il primo ministro belga Alexander De Croo ha espresso riserve, sottolineando che «queste cosiddette soluzioni non hanno mai dimostrato una particolare efficacia in passato, e i costi sono estremamente elevati».

Nonostante queste voci oppositive, il mutato approccio sulla questione migratoria di numerosi leader dell’Unione, dimostra inequivocabilmente lo spostamento a destra dello spettro politico sancito dal voto europeo di giugno. Se implementato su scala europea, questo modello potrebbe ridefinire le politiche migratorie dell’Ue, nonostante le critiche di diverse organizzazioni umanitarie, preoccupate per la possibile riduzione delle tutele legali garantite ai richiedenti asilo.

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