Donald Trump è il “nuovo” presidente degli Stati Uniti

Donald Trump è il “nuovo” presidente degli Stati Uniti

«Molte persone mi hanno detto che Dio ha risparmiato la mia vita per una ragione, e la ragione era che avrei dovuto salvare questa nazione». Con queste parole Donald Trump ha dichiarato in prima persona di aver vinto la corsa per la Casa Bianca davanti ai suoi supporters in estasi, nel suo quartier generale di Mar-a-lago a West Palm Beach. Il tycoon è salito sul palco circondato da bandiere americane al vento e da una folla che scandiva “U-S-A, U-S-A”, e ha pronunciato un discorso dai contorni messianici: «bloccheremo i confini, sistemeremo tutto nella nostra nazione che ha così tanto bisogno di aiuto. Questa è la più grande vittoria politica nella storia degli Stati Uniti, non è mai successo nulla di simile. Combatterò per voi e per i vostri figli ogni giorno, con ogni singolo respiro».

Anche a conteggio dei voti non ancora ultimato, e per ora in assenza di dichiarazioni da parte di Kamala Harris, le cose non potrebbero sembrare più chiare. Donald Trump ha già ottenuto 276 grandi elettori sui 270 necessari per essere confermato, tra qualche settimana, come nuovo presidente statunitense. In generale questa è una delle migliori performance elettorali degli ultimi anni per i repubblicani, che vincono in maniera molto netta con uno scarto di oltre cinque milioni di voti nel voto popolare, mentre i democratici hanno perso molte delle posizioni guadagnate da Joe Biden nella scorsa tornata elettorale.

Donald Trump ha innanzitutto vinto in maniera più o meno netta in tutti e sette gli swing states, gli stati in bilico. In Michigan, stato roccaforte della classe operaia bianca che sembrava aver trovato in Tim Walz una alternativa alla retorica trumpiana, a 95% delle schede scrutinate i repubblicani avrebbero vinto con oltre centomila voti di scarto, un dato che scende ad appena trentamila voti nel vicino Wisconsin. In Pennsylvania, che è stata il terreno privilegiato della campagna elettorale democratica negli ultimi giorni prima del voto, con numerosi comizi di Kamala Harris, ma anche di Clinton e Obama, Donald Trump ha vinto con due punti percentuali di scarto e oltre centocinquantamila voti di differenza. I repubblicani hanno dunque conquistato in maniera inequivocabile l’intero blue wall, il muro blu (Wisconsin, Michigan, Pennsylvania) che tradizionalmente è sempre stato democratico, ma che ha risentito più di tutti gli altri stati della crisi industriale che ha investito ormai da decenni tutta l’area. Simili le vittorie repubblicane in Georgia e North Carolina (rispettivamente centomila e duecentomila voti di scarto), così come in Arizona, dove Trump per ora sarebbe in vantaggio per circa centomila voti, e in Nevada, dove soli cinquantamila voti starebbero decidendo la sconfitta dei democratici.

Inoltre, anche se secondo le prime proiezioni il 54% delle donne avrebbe votato la Harris, un risultato comunque peggiore del 57% di voto femminile per Joe Biden nel 2020, resta il fatto che anche sul fronte dei diritti civili i democratici hanno subito una sconfitta abbastanza netta. Nella repubblicana Florida, ad esempio, dove i dem sono riusciti a perdere anche il collegio Miami-Dade, storicamente blu, si votava anche per legalizzare il consumo di marijuana e per estendere la possibilità di praticare l’aborto fino alle 24 settimane (oggi l’abortion ban prevede la possibilità di abortire solo fino alla sesta settimana). I due emendamenti, sostenuti con vigore dai democratici – anche se quello sul consumo della cannabis, a dirla tutta, aveva anche ricevuto l’endorsement di Trump – avrebbero avuto bisogno del 60% dei voti favorevoli per passare. Nonostante i sondaggi, che sembravano dare per probabile il superamento di questa soglia, nessuno dei due emendamenti è stato approvato dal voto popolare: il primo si è fermato al 55.9% dei consensi, mentre il secondo al 57.1%.

La pesante sconfitta dei democratici si riesce a intravedere ormai anche nel rinnovo dei componenti del Congresso, l’organo legislativo federale, composto da due camere. Al Senato, la camera alta del Congresso, il risultato è inequivocabile: con 52 senatori su 100, la maggioranza semplice è in mano ai repubblicani, tanto più che il conteggio dei voti non è ancora finito e che questo numero potrebbe aumentare. Ma anche alla Camera dei Rappresentanti, dove la partita è ancora decisamente aperta, i repubblicani sono avanti, con 203 rappresentanti contro i 182 democratici: per i primi, dunque, raggiungere l’obbiettivo dei 218, e avere così la maggioranza anche nel ramo basso del Congresso, non sembra un obiettivo così irrealizzabile. Questo significherebbe, nello scenario più roseo per Donald Trump, una stabilità inaspettata, con i repubblicani che potrebbero sia esprimere il Presidente, sia controllare entrambi i rami del Congresso.

Questa è la seconda volta che Donald Trump viene eletto presidente, ed è la prima dalle elezioni del democratico Grover Cleveland nel 1892 che un candidato viene confermato per un secondo mandato a distanza di oltre quattro anni dalla fine del primo. Tuttavia, la situazione non potrebbe essere più diversa dalle elezioni del 2016, e per almeno due ragioni. Innanzitutto, otto anni fa Hillary Clinton, la candidata democratica, ottenne due milioni di voti in più dell’avversario, ma non riuscì a vincere perché non fu in grado di conquistare la maggioranza dei grandi elettori, che andarono ai repubblicani. Secondo, nel 2016 Trump era un outsider, e aveva causato più di un mal di pancia anche nel suo stesso partito. Oggi, invece, i repubblicani sono abbastanza coesi dietro alla figura del tycoon, chi per convinzione e chi per convenienza, e il dibattito interno al partito si è molto ristretto, tanto che parecchi transfughi moderati del partito hanno dovuto sostenere Kamala Harris in quest’ultima tornata elettorale.

La differenza rispetto al primo mandato di Donald Trump sta dunque tutta qui: se il tycoon nel 2016 era arrivato alla Casa Bianca in maniera abbastanza inaspettata, con un consenso poco stabile, circondato da nemici, questa volta le urne sembrano aver fotografato sì un Paese spaccato a metà fra due diverse visioni degli Stati Uniti, ma anche una vittoria netta del candidato repubblicano, nel voto popolare così come nella conquista dei grandi elettori. Questo, associato ai livelli di consenso mai così alti nel partito e dalla potenziale maggioranza repubblicana al Senato, se non addirittura in entrambi i rami del Congresso, potrebbe dare il potere a Trump di fare il bello e il cattivo tempo in ogni direzione. Come ha dichiarato questa notte Manu Raju, giornalista della CNN esperto di dinamiche elettorali statunitensi, in questa situazione «Trump avrebbe il potere straordinario di rimodellare il sistema giudiziario federale, di consolidare ulteriormente lo spostamento a destra della Corte Suprema e di intraprendere azioni esecutive sulla politica interna, cambiando al contempo il modo in cui gli Stati Uniti si impegnano con il resto del mondo. E i Repubblicani al Congresso si allineeranno».

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