Cop29, la nuova veste ecologista dell’Azerbaigian

Cop29, la nuova veste ecologista dell’Azerbaigian

La grande sfida di Baku nel mostrarsi green è di difficile attuazione: se da un lato il Paese si presenta favorevole al contrasto ai cambiamenti climatici, dall’altra, nell’agenda della Conferenza, non si impegna nell’eliminazione dei combustibili fossili.

È iniziato il green rebranding dell’Azerbaigian. Il Paese più ricco del Caucaso sta cercando di attirare investimenti nel settore delle energie rinnovabili ma, in realtà, il progetto punta sempre più all’export delle risorse fossili in Europa. In questo contesto, Baku, la capitale azera, ha inaugurato la Cop29, la conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite. Il discorso di apertura del Presidente Ilham Aliyev è chiaro: sviluppare nuovi piani per affrontare i cambiamenti climatici. In altre parole, prevenire un ulteriore riscaldamento globale e aiutare gli Stati più arretrati dal punto di vista delle energie rinnovabili a ricostruirsi attraverso un nuovo piano economico. In questo frangente, l’intervento di Giorgia Meloni si pone in linea con gli intenti di questa Cop. Nelle parole della Presidente del Consiglio ci sono gli interessi di Eni sul tema ma, ancora più a monte, il non rendersi conto che la leader di un paese europeo non può utilizzare il podio più rilevante di tutto il negoziato climatico per parlare di fusione nucleare, un qualcosa che non esiste (ancora) come soluzione ai problemi.
Non a caso, molti analisti hanno definito questa edizione “Cop finanziaria”, perché gli aiuti economici per il clima saranno necessari per aiutare i Paesi a basso reddito nella transizione verso economie a zero emissioni di carbonio. In cima alla lista delle priorità anche la ridefinizione dell’accordo di Parigi del 2015: il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) ha sottolineato che gli effetti più catastrofici possono essere evitati solo se il riscaldamento globale verrà limitato a 1,5°C entro la fine di questo secolo. 

La grande sfida di Baku nel mostrarsi green e all’avanguardia, però, è di difficile attuazione: se da un lato il Paese cerca di presentarsi come portavoce nella lotta contro i cambiamenti climatici, dall’altra, nell’agenda della Conferenza, manca l’impegno di eliminare i combustibili fossili, traguardo raggiunto l’anno scorso alla Cop28 di Dubai. A mettere in dubbio l’interesse dell’Azerbaigian rispetto ai temi di rispetto dell’ambiente è l’International Energy Agency (IEA): secondo il rapporto pubblicato sul Guardian, Socar, la compagnia petrolifera statale azera, ha speso il 97% del suo capitale in progetti di petrolio e gas. Poche settimane dopo la nomina dell’Azerbaigian come sede della Cop29 – il cui presidente è Mukhtar Babayev, attuale ministro dell’Ambiente e delle Risorse naturali, che per vent’anni è stato un alto dirigente della Socar – Baku ha promesso investimenti in tecnologie eoliche e solari ma, sempre secondo il rapporto IEA, le operazioni di Socar nel settore delle rinnovabili “rimangono insignificanti”. 

Un altro fattore di destabilizzazione sono gli investimenti in Nagorno-Karabakh: resta inascoltato il report del gruppo indipendente Climate Action Tracker (CAT) che ha giudicato “criticamente insufficiente” il piano d’azione per il clima dell’Azerbaigian. 

Poi, una contraddizione ulteriore: il governo azero ha invocato una tregua mondiale per la Cop29, nonostante prosegua con le ostilità nei confronti dell’Armenia. Dopo aver espulso 120mila armeni dalla regione contesa, l’obiettivo dello Stato è quello di realizzare nell’exclave una green energy zone, un peculiare piano di greenwashing con l’obiettivo di cancellare ogni traccia di armenità nella regione. Il Nagorno-Karabakh è conteso tra Armenia e Azerbaigian fin dal 1991, anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dopo due guerre, una persa negli anni Novanta e una vinta nel 2020, l’Azerbaigian ha occupato l’intera regione nel settembre del 2023. Il territorio, composto in maggioranza da persone di etnia armena, era governato da un’amministrazione indipendente, la Repubblica dell’Artsakh, sostenuta dall’Armenia con forze di peacekeeping russe. Dal momento in cui Mosca si è impegnata sul fronte ucraino, alla fine di febbraio del 2022, l’Azerbaigian ne ha approfittato per sconfiggere il governo autonomista, annunciandone la dissoluzione all’inizio di gennaio 2024. I combustibili fossili costituiscono circa la metà dell’intera economia dell’Azerbaigian, motivo per il quale creare un bacino di esportazioni in una nuova regione da riqualificare potrebbe rivelarsi una scelta oculata. Tuttavia, anche l’Azerbaigian, soprattutto in quanto sede ospitante della Cop29, deve fare la sua parte per ottenere un’eliminazione rapida ed equa dei combustibili fossili ma questo obiettivo non sembra essere in cima alle priorità dello Stato.

Le ambizioni sono altre, dal momento che le principali aziende azere di produzione di combustibili fossili si legano a doppio filo con molti interessi nel Vecchio Continente. Dalla britannica BP alla Total (Francia) fino ad arrivare ad Eni, che ha in previsione di sfruttare proprio la “nuova” zona nel Karabakh come hotspot di estrazione. 

Secondo varie stime, la produzione annuale di gas in Azerbaigian è destinata ad aumentare dagli attuali 37 miliardi di metri cubi (bcm) a 49 entro il 2033. Il motivo di questo aumento lo si deve rintracciare nel fatto che l’invasione russa dell’Ucraina ha segnato uno spartiacque. Le sanzioni europee al gas russo hanno portato gli Stati dell’Unione Europea a rivolgersi soprattutto all’Azerbaigian, portando ad aumentare il suo bacino di forniture di gas del 17% (che, con molta probabilità, arriverà al 20% entro il 2026). La necessità di trovare al più presto un’alternativa ha portato l’Italia – come molti altri paesi europei che vanno a gas – a diventare un partner fondamentale dello Stato di Aliyev. Per raggiungere il nostro Paese, il gas azero fluisce dal Mar Caspio attraverso la Turchia e i Balcani meridionali, arrivando nella nostra penisola attraverso il gasdotto TAP. Le incoerenze, però, non mancano: a due anni e mezzo dall’invasione russa dell’Ucraina, infatti, l’Italia sta continuando, in una certa maniera, a importare gas russo. Le sanzioni, in realtà, bloccano soprattutto l’importazione diretta del gas, il che porta le forniture alternative a fare un giro più ampio ma che arriva comunque a destinazione. Questi passaggi intermedi hanno come nodi dei partner compiacenti, come l’Ungheria, che ha da poco annunciato di aver firmato un nuovo memorandum d’intesa con Gazprom. Tali triangolazioni fanno il gioco della Russia e la grande partita dell’Azerbaigian si sta giocando non tanto sui programmi di giustizia climatica che si stanno discutendo in questi giorni alla Conferenza delle Parti (Cop) ma sulla competitività economica di Baku sul lungo periodo.

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