Tutto il film è una specie di viaggio sotterraneo nell’inconscio… è come se si insinuasse strisciando nello spettatore. Di certo per me ha un significato, ma non ne voglio parlare. Per altri significa qualcos’altro e va benissimo.
Con queste parole, pronunciate in occasione di un’intervista in merito ad Eraserhead – La mente che cancella, suo primo lungometraggio, David Lynch espose sin dal primo momento i principi e i concetti fondanti del suo cinema. Il regista statunitense non spiega, non espone fatti, ma connette tra loro concetti appartenenti a differenti sfere semantiche per creare immagini in grado di insediarsi all’interno dello spettatore e tenere banco nella sua memoria per molto tempo. La narrazione tradizionale crolla di fronte alle opere maggiori di Lynch e il principio fondante della sua poetica risiede proprio nella voglia di non spiegare e non completare ciò che si delinea sullo schermo: un’imperfezione infinita che rifiuta la logica dell’accostamento tra il perfetto e il compiuto. A tal proposito non è un caso che l’educazione e la prima vocazione del Lynch artista fosse la pittura – in particolar modo quella surrealista. Il cineasta d’oltreoceano gioca con sé stesso e con lo spettatore in un vortice di significati vuoti e significanti saturi in modo da costruire sensazioni ed emozioni; film come Eraserhead, Strade Perdute, Mulholland Drive e la sua opera magna Twin Peaks, sono suggestioni. In esse l’apparente lassità dei nessi e la mancanza di chiarezza non sono un limite ma un traguardo ricercato. Mettersi di fronte allo schermo e guardare un’opera di Lynch col solo scopo di evidenziare le incongruenze è un impiego inutile di tempo; così come, allo stesso modo, lo è la ricerca del dettaglio in grado di far filare l’opera. L’intento del regista, infatti, non è rispondere e rassicurare ma instaurare il dubbio e far sprofondare lo spettatore in una dimensione onirica in cui il mistero inconscio è allo stesso tempo croce e delizia:
Nel caso di Twin Peaks, io e Mark Frost non avevamo intenzione di risolvere il caso dell’omicidio di Laura Palmer – poteva finire in secondo piano, ma doveva esserci perché era il mistero che metteva in moto tutto il resto. E una volta svanito quello è stata la fine, e la serie è andata alla deriva. La verità è che gli esseri umani amano il mistero. A me piace un mistero alla fine del quale ci sia ancora spazio per il sogno. Che il sogno continui.
Tuttavia, tale citazione è in grado anche di suggerirci altro. Un concetto fondamentale e forse troppo spesso dimenticato quando si parla del cinema di David Lynch. La scelta di suggerire piuttosto che esplicitare gli elementi che compongono le immagini e la storia che prende vita sullo schermo non è figlia di un esercizio di stile o di una vaghezza tanto ricercata quanto generica. Al contrario, il cinema di Lynch, pur mancando di chiarezza, non manca di essenza; soprattutto non manca di un’essenza politica e sociale.
Ciò che si vuole suggerire e, in un certo senso, operare in questa occasione è una esplicitazione ed una rivalutazione di un elemento troppo spesso taciuto quando si parla del cinema di questo autore. Le opere dell’artista sono uno specchio della cultura sociale e politica statunitense. Uno specchio spezzato che frammenta, distorce, modifica, fonde e riflette parzialmente. Ma, nonostante ciò, resta lo stesso uno specchio. Oltre i sogni e gli incubi c’è una dimensione sempre presente eppur mai presentata. Il paesaggio industriale di Eraserhead, la piccola cittadina in grado di nascondere il suo cuore marcescente che in Velluto Blu richiama all’epoca reaganiana e in Twin Peaks al nichilismo degli anni ’90 e la Hollywood cannibale (sineddoche degli Stati Uniti stessi) di inizio anni 2000 di Strade Perdute e Mulholland Drive sono al tempo stesso parti integranti ed elementi secondari all’interno delle rispettive narrazioni.
Nel cinema di Lynch si racconta un periodo che va dalle macerie degli anni ’70 al tradimento del sogno americano di inizio anni 2000, giungendo infine all’estrema sublimazione di cinquant’anni di storia statunitense rappresentata dal ritorno a Twin Peaks. In questo lunghissimo arco temporale, dunque, si gioca con il tempo, con le immagini e con i generi per descrivere e, soprattutto, nascondere al meglio tale presenza. Un processo di occultamento così riuscito che, ancora oggi, ad uno sguardo poco attento passa inosservato.
In questi giorni cupi, coperti da nuvole dalle multiformi sagome, viene da chiedersi come Lynch avrebbe sognato, raccontato e nascosto tutto ciò. Il grande regista purtroppo ci ha abbandonato, ma la sua lezione è disponibile a chiunque sia in grado di raccogliere la sua eredità. La speranza resta, che il sogno continui.
*le citazioni sono tratte da Barney, R. A., David Lynch – Perdersi è meraviglioso (Minimum Fax 2016)
Sebastian Angieri