Si vis pacem, para bellum. La celebre massima latina rappresenta, in questo periodo storico, la più idonea definizione per riassumere quelle che sono le esigenze legate alla prevenzione dei conflitti armati tra le nazioni.
Il 22 Gennaio si è tenuta a Bruxelles la conferenza annuale dell’Agenzia europea per la difesa (EDA), avente come tema “Nuovi orizzonti nella difesa dell’UE: aumentiamo le ambizioni e acceleriamo le misure”, ed è in questa sede che è stata ribadita l’esigenza di puntare ad un incremento degli investimenti nella difesa da parte di tutti i paesi aderenti alla NATO.
Priorità ribadita dal neo Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, il quale da tempo afferma a gran voce che i membri dell’Alleanza atlantica possono sostenere agevolmente le spese per la difesa, portandole al 5% del prodotto interno lordo, e non fermandosi al 2% prefissato.
Di concerto è intervenuto anche il Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, richiamando l’attenzione dei paesi europei sulla loro impreparazione in caso di conflitto con la Russia, e pertanto è dovere di ognuno provvedere all’innalzamento dei costi per la difesa; l’ex primo ministro olandese ritiene prioritario che i paesi più in difficoltà raggiungano il traguardo del 2%.
Sempre secondo Rutte, gli stati inadempienti “devono arrivare al 2% nei prossimi mesi. Deve essere fatto quest’anno”, e non è impossibile aumentare i contributi alla difesa, evidenziando che le nazioni europee possono permettersi di tagliare le spese per pensioni, sanità e previdenza sociale o di aumentare le tasse per incrementare la spesa per la difesa: affermazioni forti queste ultime, che disattendono le priorità di spesa interna per ogni stato, e che difficilmente troveranno accoglimento negli altri partner.
Finanche l’attuale primo ministro olandese Dick Schoof ha ammesso che impegnare il 5% del PIL nazionale per la difesa è un’impresa particolarmente gravosa.
All’epoca della sua istituzione, avvenuta nel 1949, la NATO era costituita da dodici paesi fondatori, tra cui l’Italia, che ospita sul suo territorio oltre cento basi militari (conosciute) di USA e NATO, e che, in tutte le operazioni militari internazionali, ha fornito il proprio supporto sia in termini economici che a mezzo delle risorse umane necessarie.
Il c.d. “principio di condivisione degli oneri” risale all’anno 2014, quando, in occasione di un summit, fu stabilito che le nazioni alleate avrebbero dovuto raggiungere, entro il 2024, l’obiettivo del due per cento del PIL, da riservare alle spese per la difesa militare.
L’Italia, negli ultimi dieci anni, si è attestata ad una quota di partecipazione media annua inferiore all’1,5% (circa trenta miliardi di Euro), a differenza della maggior parte dei paesi europei, che hanno superato la soglia prestabilita, quali ad esempio Estonia, Grecia, Lettonia, Polonia, che contribuiscono con oltre il 3% del loro prodotto interno lordo.
A fronte di tali dati, e delle “intimazioni” provenienti da Trump e Rutte, il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato che l’Italia può arrivare al 2%, come concordato a suo tempo, ma non ad un cinque per cento, come ravvisato; dello stesso avviso gli omologhi inglese, francese, polacco e tedesco, i quali, per quanto più virtuosi, non toccheranno i loro bilanci a discapito di sanità e welfare.
Il consesso dei paesi atlantisti si riunirà a Bruxelles a giugno prossimo, ed in quella sede uno dei primi punti all’ordine del giorno sarà proprio quello afferente l’aumento delle risorse economiche da destinarsi alla spesa militare, ma è altamente improbabile che vengano accolti i desiderata dei promotori Rutte e Trump.
All’evidenza dei fatti, però, è da ritenersi verosimile che in una prospettiva futura gli stati, di fronte a ipotetici (e a volte iperbolici) scenari di guerra globale, contribuiranno a garantire, sempre e comunque, onerose forniture in favore dell’industria bellica, con buona pace dei capitalisti.
Giovanni Stefanelli