Anche se il dibattito pubblico italiano è occupato dalle vicissitudini giudiziarie legate alla scarcerazione del torturatore libico Almasri, la recente visita della premier Meloni in Arabia Saudita impone una riflessione sulle strategie commerciali legate alle armi. Acquisti, produzione nazionale e vendita di armamenti stanno diventando una voce di bilancio sempre più importante per Roma. E la guerra in Ucraina e l’obbligo imposto dalla Nato di spendere almeno il 2% del Pil per la Difesa sono solo la punta dell’iceberg.
Il 31 maggio del 2023 l’Italia ha revocato le limitazioni all’export di bombe e missili verso l’Arabia Saudita, che erano state adottate per evitarne l’utilizzo nella guerra in Yemen. Un provvedimento, quello voluto dal governo Conte I nel che, secondo la Rete italiana Pace e Disarmo ha cancellato la fornitura di 13.000 ordigni. Ma per diversi anni, dal 2015, le armi italiane sono servite per attacchi aerei quotidiani da parte della coalizione saudita con 18000 vittime civili tra morti e feriti. Nulla di meglio, adesso, che una revoca delle limitazioni alle armi per cancellare le brutte cose dette in questi anni da Giorgia Meloni sul regime di Bin Salman.
Pochi giorni fa si è conclusa una “proficua” visita della Presidente del Consiglio al principe ereditario Mohammad Bin Salman, primo ministro dell’Arabia Saudita dal 2022, durante la quale sono stati stipulati accordi per dieci miliardi di dollari. In prima linea con Giorgia Meloni, l’Ad di Leonardo, Roberto Cingolani, pronto a illustrare (e coinvolgere l’Arabia Saudita) nella produzione dei caccia di nuova generazione del progetto Gcap.
L’Arabia Saudita è uno dei più grandi acquirenti di armi italiane, e il viaggio di Meloni – non a caso – arriva proprio mentre la Nato, Trump e le istituzioni europee chiedono di aumentare l’investimento nella difesa. L’intenzione, della ritrovata amicizia tra Bin Salman e Meloni è quella di rendere l’Arabia Saudita partner strategica del piano Mattei per l’Africa. Bin Salman ha già un piano per il continente africano, che prevede tra le altre cose, l’immissione sul mercato dei Paesi emergenti di auto a basso costo alimentate a benzina o diesel, mediante accordi con un’azienda produttrice globale di auto di cui non si conoscono ancora le generalità. La strategia di Bin Salman sulle emissioni, come dichiara un’inchiesta del Centre for Climate Reporting, è proprio quella di rendere le economie emergenti di Africa e Asia dipendenti dal petrolio arabo.
Petrolio che arriva anche in Italia, seppur con oscillazioni prima in positivo (per via delle sanzioni alla Russia), poi leggermente in calo.
La più grande industria petrolifera del mondo è proprio l’araba Aramco, la più inquinante al mondo quanto a emissioni, una società partecipata quasi totalmente dal regime saudita, nonché sponsor FIFA per la Coppa del mondo maschile del 2026 e per la Coppa del Mondo femminile del 2027. “Un’ipocrisia” secondo la lettera aperta che a ottobre oltre cento calciatrici professioniste hanno inviato alla FIFA chiedendo di ritirare la partnership con Aramco. La lettera denuncia i soprusi e le discriminazioni, le incarcerazioni sommarie, le oppressioni che le donne subiscono sotto il regime di Bin Salman, raccontando i casi di diverse sportive in carcere per aver rivendicato la libertà di espressione.
La petrocompagnia simbolo del regime può sempre contare sull’appoggio dell’italiana Leonardo, che fornisce da sempre elicotteri per la sua flotta. All’inizio del 2024 Leonardo ha stipulato un memorandum d’intesa con il Ministero degli investimenti (MISA) del Regno dell’Arabia Saudita e con l’Autorità generale per le industrie militari (GAMI) per una collaborazione nel campo della difesa e non solo. In vista dei mondiali del 2034, che saranno ospitati proprio nel regno, verranno decuplicate le capacità passeggeri degli aeroporti esistenti e costruiti altri aeroporti in misura sproporzionata rispetto al numero di visitatori attesi. Progetti faraonici che richiedono l’aiuto dell’industria italiana.
D’altra parte, che non si debba puntare solo sulle rinnovabili (ma sulla fusione nucleare e sullo stoccaggio di CO2) Meloni lo aveva detto alla Cop29 in Azerbaijan, con ricette piuttosto anacronistiche rispetto al bisogno immediato di riduzione del riscaldamento globale. “No alla decarbonizzazione a prezzo della desertificazione economica” ha chiarito qualche giorno fa alla Sustainability Week di Abu Dhabi. Sulla stessa lunghezza d’onda dei petrostati.
Durante la visita in Arabia Saudita, l’agenzia di credito all’esportazione italiana SACE ha dichiarato che avrebbe fornito garanzie di prestito per un valore di 3 miliardi di dollari per il progetto immobiliare NEOM, la città simbolo di quella che Bin Salman chiama “Vision 2030” e che è ormai nota per le violazioni dei diritti umani su più fronti: l’espropriazione della terra alla tribù indigena dei Huwaitat e frequenti abusi e sfruttamento dei lavoratori.
Insomma, nonostante la Vision, l’Arabia Saudita continua ad essere un “paese fondamentalista, con la pena di morte per apostasia, per adulterio, per omosessualità, con zero diritti per le donne”. Proprio quello che Meloni dichiarava fino a qualche tempo fa criticando l’amicizia di Matteo Renzi con il principe Bin Salman.
Ma col senno di poi, anche pieno di “partnership strategiche”.
Angela Galloro