Se è vero che finché qualcosa non viene raccontato non esiste, allora dobbiamo molto a Wilma Labate, regista romana classe 1949, per aver realizzato «Arrivederci Saigon» (2018). Il documentario racconta per la prima volta l’incredibile storia delle giovanissime Stars, ovvero di Rossella Canaccini (voce), Viviana Tacchella (chitarra), Daniela Santerini (organo), Franca Deni (basso) e Manuela Bernardeschi (batteria), cinque ragazze quasi tutte minorenni provenienti dalle zone tra Piombino, Pontedera e Livorno che, tra il novembre 1968 e il gennaio 1969, si sono ritrovate nel Vietnam del Sud ad esibirsi nelle basi militari statunitensi di Saigon (oggi Città di Ho Chi Minh), Chu Lai, Da Nang e nel delta del Nam Trung Bo.
La storia è semplice: l’impresario Ivo Saggini (già manager dei Pooh e altri) nel 1967 fonda le Stars, appunto, gruppo femminile – caratteristica unica, ai tempi, in Italia – dal repertorio soul, beat e rythm and blues. Saggini organizza dei tour nazionali, così le cinque si esibiscono in lungo e in largo per l’Italia finché il manager non propone loro un contratto che gli avrebbe consentito di suonare in un Paese dell’Estremo Oriente. Le ragazze acconsentono sognando Manila, Tokyo, Hong Kong ma, per un malinteso contrattuale, le cinque finiscono con il doversi esibire in uno dei più violenti conflitti del secondo dopoguerra.
Sembra un brutto scherzo, ma non lo è. La vicenda è narrata dalle protagoniste con un tono, ancora oggi, incredulo. Stupite di essere sopravvissute, le Stars sono vittime di una serie di fraintendimenti linguistici e burocratici e di una sequela di superficialità imperdonabili (viene impedito loro di tornare in Italia nonostante il conflitto in corso), che le hanno portate più volte vicine alla morte.
Per questo non stupisce la fatica con cui raccontano il loro Vietnam e il fatto che solo in quattro acconsentano a parlare (la batterista Manuela Bernardeschi, di quella storia, non ha più voluto sapere niente), e anzi emerge la rabbia nei confronti del manager distratto (Saggini junior compare nel documentario per difendere la memoria del padre deceduto, ma è difficile empatizzare con l’impresario pasticcione).
Il racconto si fa, nel dramma, comico, quando raccontano di aver quasi perso la vita per aver interpretato male una parola in inglese, ma è soprattutto doloroso, come quando la bassista Franca Deni rischia la vita per una polmonite e un’infezione renale, o quando denunciano le inutili morti dei giovanissimi soldati statunitensi conosciuti nelle basi e mai tornati.
È proprio il repertorio di cover soul e rhythm and blues delle Stars che gli consente infatti di saldare un legame particolare con i ragazzi arruolati e in particolare con gli afroamericani che, impauriti e terrorizzati, vedono nelle cinque ragazze delle sorelle e trovano nella loro musica autentico conforto e sollievo.
Nel corso degli ottanta minuti, l’eccezionalità della vicenda finisce per mettere in secondo piano l’attività musicale del gruppo, anche perché di materiali video o audio delle esibizioni delle Stars non ve ne sono. Per questa ragione, il montatore Mario Marrone ha svolto una importante ricerca di archivio, sovrapponendo alle testimonianze delle musiciste le immagini inedite di proteste da tutto il mondo contro la guerra in Vietnam.
Tornate in Italia, le Stars vengono ignorate dalla stampa e ostracizzate dalle sezioni locali del Partito comunista italiano, colpevoli di essersi trovate dalla “parte sbagliata” del fronte. Il gruppo si scioglierà poco dopo e nessuna di loro vorrà più parlare di quei tre mesi, ma l’avventura sarà una ferita permanente che solo con la restituzione di Labate sembra trovare la possibilità di cicatrizzarsi.
Serena Ganzarolli