31 gennaio 2024. Mancano quattro giorni al ventesimo compleanno di Facebook. Il fondatore del social network, Mark Zuckerberg, oggi ha 39 anni, è l’undicesima persona più ricca al mondo e si trova al vertice di Meta, l’impresa che controlla Facebook, Instagram, Whatsapp e Messenger. Convocato alla commissione giustizia del Senato statunitense per rendere conto dei rischi delle piattaforme social per i bambini e gli adolescenti, si rivolge ai genitori dei giovanissimi morti o traumatizzati dai social chiedendo scusa.
«Si fa pressione per proteggere i bambini e le bambine, ma appena diventano maggiorenni l’interesse si spegne, soprattutto verso le femmine. Eppure le donne sono il primo bersaglio dell’odio online» spiega Silvia Semenzin, ricercatrice in Sociologia Digitale presso l’Università Complutense di Madrid. Secondo i dati, le donne presenti su Facebook sono poco più del 40% del totale e sono la categoria più colpita dall’hate speech.
Proprio la misoginia è il demone che perseguita il CEO di Meta fin dai suoi primi esperimenti social. Pochi mesi prima di lanciare TheFacebook, rete per connettere gli studenti dei college statunitensi che in seguito sarebbe diventato il social network quotato a Wall Strett nel 2012 per un valore di 104 miliardi di dollari, Zuckerberg fondò il meno noto Facemash, dalla breve vita (rimase online un paio di giorni) ma per il quale rischiò l’espulsione da Harvard. Su Facemash, gli studenti dei college condividevano senza consenso le immagini delle colleghe. Per questo l’università punì il futuro miliardario per “violazione della sicurezza, dei diritti d’autore e della privacy”. In un’audizione al Congresso nell’aprile 2018 Zuckerberg ha minimizzato, affermando che non c’è mai stato alcun collegamento tra le due piattaforme.
È nel 2008 che Facebook si diffonde in tutto il mondo, registrando milioni di iscritti. Le dinamiche del mondo reale si riversano così su Internet. Violenza sulle donne compresa.
Ricerca e pubblicazione online di informazioni personali e private (doxing), pornografia non consensuale (revenge porn), cyberstalking e invio di foto a sfondo sessuale in chat (sex trolling) sono alcune forme delle molestie sessuali individuate da Rita Rapisardi nel suo articolo Lapidazione 2.0 comparso su MicroMega 6/2022. La giornalista denuncia come non esistano studi sulla violenza sessuale online, che può avere ripercussione anche fuori dalla rete e che, secondo un report del 2020 dell’UN Women, riguarda in Europa una donna su dieci. Secondo lo studio Cyber violence against women and girls dello European Institute for Gender Equality, le donne subiscono violenze particolarmente più gravi degli uomini, dal cyberstalking alle trasmissioni live di aggressione sessuale e stupro attraverso la funzione «diretta Facebook» introdotta nel 2016. Già nel 2017 vennero condivise le live di due stupri, uno in Svezia e l’altro negli USA. Facebook non fermò la diretta di nessuno dei due.
«L’idea di Facebook è usare la censura per mettere un argine alla violenza online contro le donne, ma non funziona» spiega Semenzin «L’effetto del cosiddetto deplatforming, cioè la cancellazione di contenuti, pagine, profili di utenti o pagine social che violano i termini di servizio è quello di censurare, ad esempio, tutti i contenuti a sfondo sessuale, equiparando i discorsi di odio dei gruppi misogini alle riflessioni delle comunità di donne o LGBT solo perché contengono alcune parole sensibili».
Enrica Beccalli, designer di prodotti digitali specializzata in Design and Technology, sottolinea come l’interfaccia di Facebook non sia affatto innocua: «Nel 2009 è stato introdotto il tasto Mi piace, un eccezionale aggregatore di dati sulle preferenze degli utenti, cruciale per affinare il targeting pubblicitario, pilastro fondamentale della sua strategia di monetizzazione». Nel 2016 sono state aggiunte le reazioni: «Una di queste è diventata un modo per delegittimare o bullizzare qualcuno: la reaction che si sbellica dalle risate. Da ridere a deridere il passo è breve» continua. «Quando si riflette sulle funzionalità dedicate alla sicurezza, alcuni strumenti per la moderazione e la gestione dei contenuti sono stati lanciati soltanto negli ultimi anni. Questa evoluzione sottolinea come spesso lo sviluppo delle piattaforme digitali tenda a minimizzare l’importanza della sicurezza, della resilienza e dell’effetto duraturo che le tecnologie esercitano sulle persone e sulla società». È l’approccio “Move fast and break things”, il motto interno a Facebook, che enfatizza l’innovazione e la rapidità di sviluppo ma che non fa i conti con i danni che può causare: «Una delle minacce che le donne ricevono più spesso online è quella di stupro. La tecnologia per evitare che quel messaggio venga pubblicato esiste. Può essere usata a priori, ma a deciderlo deve essere il team che ci lavora».
Due anni prima di Cambridge Analytica, l’UE iniziò a regolamentare l’uso dei dati personali attraverso il Regolamento generale sulla protezione dei dati nel 2016, il Digital Service Act nel 2022 e l’AI Act nel 2023. «Ma sulla violenza di genere anche l’Europa resta indietro. Manca il focus sulla questione femminile» sottolinea Semenzin. «Basti pensare a Tiziana Cantone, morta suicida nel 2016 dopo la diffusione in rete senza il suo consenso di video pornografici su diversi siti, tra cui Facebook». Per la rimozione dei video Cantone dovette inoltre versare un risarcimento di 20.000 euro alle cinque piattaforme miliardarie. Solo dopo il suicidio della giovane, l’Italia si dotò di una legge sul revenge porn e sul cyberbullismo.
Eppure vent’anni dopo il primo post su Facebook, governi e istituzioni sembrano ancora brancolare nel buio di fronte ai colossi del web: un disorientamento inaccettabile di fronte ai recenti casi di stupro nel Metaverso e alla diffusione del deepfake come arma per colpire le donne.