Il 27 maggio scorso ricorrevano i 100 anni dalla nascita di un uomo che è stato in grado di innescare una grande riflessione culturale e sociale nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Un uomo credente e religioso nel proprio intimo, quanto laico e illuminato nella propria visione intellettuale: stiamo parlando di Don Lorenzo Milani.
Don Milani, una panoramica della sua vita
Lorenzo Milani nasce a Firenze nel 1923 da una famiglia colta e agnostica: suo nonno paterno è un famoso archeologo, suo padre un professore universitario e sua madre, di origine ebraica boema, è cugina di Edoardo Weiss, pioniere della psicoanalisi italiana, e allieva di James Joyce, che le insegna l’inglese.
Lui e i suoi fratelli vengono battezzati per aggirare le leggi razziali. Lorenzo dimostra fin da giovane un’intelligenza eclettica e una passione per l’apprendimento. Frequenta l’Accademia delle Belle Arti, ma successivamente si converte alla fede cattolica e decide di diventare prete.
Dopo l’ingresso in seminario, si capisce che Milani non sarà un prete qualsiasi: si rivela fin da subito un ragazzo pieno di quesiti scomodi e pronto a sfidare l’autorità. La sua scelta di diventare prete è incompresa dalla famiglia, ma viene rispettata: nel 1947 diventa don Milani e celebra la sua prima messa.
La sua prima destinazione come sacerdote è San Donato a Calenzano, un comune operaio di ideologia comunista. Qui fonda la scuola popolare laica, consapevole che l’istruzione è fondamentale per contrastare lo sfruttamento degli individui e sviluppare un pensiero critico. Inizia anche a prendere posizioni pubbliche, criticando le contraddizioni della Chiesa e facendo campagna per la Democrazia Cristiana.
Nonostante le incomprensioni con la gerarchia ecclesiastica, Milani continua a seguire il suo cammino pastorale. Nel 1954 viene assegnato (per punizione, ndr) a Sant’Andrea di Barbiana, una parrocchia isolata in Mugello. Qui entra in contatto con una comunità povera di contadini e pastori, con scarse opportunità di istruzione: così decide di fondare una scuola per offrire un’educazione ai bambini emarginati.
La cosiddetta Scuola di Barbiana diventa un luogo di apprendimento a tempo pieno, dove ogni occasione diventa un’opportunità di conoscenza per i ragazzi delle classi più umili, che convertono 12 ore di pesante lavoro in 12 ore di studio e vita con il prete. Quest’ultimo accoglie i diseredati e si impegna per migliorare le loro vite, lottando per i loro diritti e per una società più giusta. La sua scuola diventa un esempio di impegno sociale e di interpretazione radicale del Vangelo.
Nonostante le difficoltà e le critiche, don Milani continuerà a svolgere il suo lavoro a Barbiana, dedicando la sua vita alla lotta per l’uguaglianza e l’istruzione. Mettendo a repentaglio la propria libertà: in seguito alla pubblicazione della sua Lettera ai Cappellani militari (1965) verrà anche perseguito dalla legge e accusato di istigazione a delinquere.
La sua esperienza e i suoi scritti avranno un impatto duraturo sulla società italiana, influenzando generazioni successive di educatori e attivisti.
I suoi scritti: la Lettera ai cappellani militari
Abbiamo appena menzionato il primo testo che ha innescato il dibattito pubblico intorno alla figura di Don Milani: la famigerata Lettera ai cappellani militari. Pubblicata il 12 febbraio del 1965 sul quotidiano La nazione, affronta un tema attualissimo quanto controverso all’epoca: quello dell’obiezione di coscienza. Sì, perché mentre oggi siamo nella condizione di poter scegliere se arruolarci o meno nell’esercito, all’epoca in cui Don Milani scriveva l’obiezione era ancora una scelta non contemplata dalla legge.
A leggere il testo non ci sono dubbi: il prete ripudia in modo deciso e assoluto la guerra. Le sue parole a tale proposito non lasciano adito a dubbi: “Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
Nella Lettera, Don Milani si sofferma anche sul suo concetto di patria: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.
Poi lui e i suoi ragazzi si impegnano ad analizzare tutte le guerre che hanno coinvolto l’Italia a partire dal 1860. Ecco il verdetto: sono tutte ingiuste, in quanto guerre di aggressione e non di difesa. Fatta eccezione per una: “L’unica guerra giusta (se giusta si può dire) “l’unica che non fosse offesa alle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altro dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, “i ribelli” e quali i “regolari”?”.
Il 23 febbraio, Don Milani invia la Lettera ai cappellani militari in forma di lettera aperta a 11 giornali. Tuttavia, solo la rivista Rinascita osa pubblicare per intero il testo il 6 marzo. Il 15 marzo, un gruppo di ex-combattenti denuncia Don Milani e il direttore di Rinascita, Pavolini, per apologia di reato, accusandoli di diserzione e disobbedienza militare.
Tra i pochi sostenitori della sua lettera c’è Raniero La Valle, direttore dell’Avvenire d’Italia, che scrive: “Il valore dell’obiezione di coscienza non è un semplice scrupolo individuale, ma un annuncio profetico. È un appello per un mondo in cui la guerra non esista per nessuno”.
I suoi scritti: Lettera a una professoressa
Nell’anno della sua precoce dipartita, il 1967, Don Milani pubblicherà quello che è riconosciuto come manifesto della sua visione rivoluzionaria della scuola italiana: la Lettera a una professoressa. La lettera, che è un vero e proprio libello di denuncia, viene scritta in seguito della bocciatura ingiusta di due suoi studenti.
Qui Don Milani denuncia innanzitutto la diseguaglianza in termini di educazione dei giovani. Resta celebre la frase: “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali”. La conoscenza e la padronanza della lingua rendono liberi, come dimostrano le parole dell’autore: perché “se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato ad essere sempre servo”.
La denuncia di Don Milani è rivolta alla scuola pubblica, che non è concepita per essere equa né fruibile. A sorprenderlo è l’atteggiamento contrario che riscontra nei ragazzi al suo arrivo a Barbiana: considerano la scuola una seccatura e una perdita di tempo, che li porta lontani dai campi di lavoro.
Così scrive Don Milani: “Consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio. Il maestro per loro era dall’altra parte della barricata e conveniva ingannarlo. Cercavano perfino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non c’era registro”.
Il quadro che si staglia di fronte all’insegnante è sconfortante, ma lui sa convertire il molto tempo passato nei campi a lavorare in altrettanto tempo ad apprendere, a discutere e a leggere il giornale, tutti insieme, nell’aula di Barbiana. Si mette in gioco in prima persona, dedicando tutto sé stesso alla qualificazione dei suoi ragazzi.
In quest’opera, poi, Milani affronta anche un’altra questione, preponderante nella società di quel tempo (e, in parte, anche oggi): la questione linguistica. In Italia si parlano più lingue: quelle dei poveri e quelle dei ricchi. Ma solo queste ultime sono riconosciute in quanto tali. L’analfabetismo, nel 1961, interessa l’8,3% della popolazione italiana: a combatterlo, oltre a Don Milani, ci pensa su larga scala Alberto Manzi con la trasmissione Rai Non è mai troppo tardi. Inoltre, fino al 1970 la messa veniva condotta in latino, lingua sconosciuta alla maggior parte della popolazione.
Don Milani scrive: “Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni (uno dei suoi ragazzi, ndr) è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: «Non si dice lalla, si dice radio».
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. «Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua». L’ha detto la Costituzione pensando a lui. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione. E Gianni non è più tornato neanche da noi”.
Ricordando gli studenti approdati a Barbiana, il prete coglie l’occasione per rivendicare il diritto all’istruzione anche per le ragazze: “Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono d’essere intelligente. È razzismo anche questo. Ma su questo punto non abbiamo nulla da rimproverarvi. Le bambine le stimate più voi che i loro genitori”.
Le ragazze di Barbiana: Fiorella Tagliaferri
Eppure, da Barbiana c’è passata anche qualche ragazza: tra le altre Fiorella Tagliaferri, classe 1948. Frequentò la scuola di Don Lorenzo Milani con il fratello Giancarlo e lì conobbe il suo attuale marito, Gianpaolo Bonini. A distanza di cinquant’anni gli ex alunni sono ancora grati al prete per i suoi insegnamenti. Che partivano dalle basi: non si dà mai del lei, perché mette distanza tra le persone, ma sempre del tu. Anche quando ci si rivolge a figure di prestigio.
Ecco che cosa racconta Fiorella dell’incontro con il suo insegnante: “Sentivo che gli importava di me. Era la prima persona adulta, intelligente e colta che si dedicava a me. Mi dedicava il suo tempo, e questa è la cosa più bella che mi sia rimasta per tutta la vita”. ll primo ad accedere alla Scuola di Barbiana fu il fratello: “I miei genitori inizialmente si rifiutavano di mandarlo.
Dicevano che il padrone aveva dato loro il podere in cambio di otto braccia e, senza Giancarlo, sarebbero rimaste solo sei. Mio fratello stava lì su un muretto ad aspettare, sotto la pioggia o la neve, in una forma di protesta per avere il permesso di andare a scuola. Quando finalmente riuscì a portare via Giancarlo, Don Milani voleva portare via anche me. Mi diceva che non ero meno importante di mio fratello, che dovevo smettere di considerarmi inferiore solo perché ero una femmina. Così, dopo aver pulito stalle e porcili, chiedevo a mia madre se potevo andare a scuola. All’epoca non era un diritto”. Ricorda come Don Milani l’abbia sempre trattata alla stregua degli altri suoi studenti: “Anche se ho perso molti giorni di scuola, posso dire che mi ha dato qualcosa che mi è servito per tutta la vita. Credo di essere stata l’unica che potesse arrivare a tutte le ore: don Milani non permetteva a nessuno di arrivare in ritardo. Voleva che fossi al pari degli altri”.
A detta di Fiorella, la caratteristica più evidente del prete era il suo altruismo: “Dare agli altri quello che si ha. Lui aveva la cultura e ci dava quella, poi ci trattava con tenerezza paterna, maschi e femmine tutti uguali. Ho scoperto che era di famiglia ricca solo un anno dopo averlo conosciuto: aveva i sandalacci, i capelli spesso da tagliare, la tonaca tutta sfilacciata…
L’ho scoperto quel giorno che siamo andati a casa sua a Montespertoli. Gli dissi: “Ma priore allora tu sei ricco, perché non stai qui? C’è anche la cappella e mangi bene ogni giorno”. E lui mi rispose: “Ma Fiorella io lassù ho voi”, come dire che noi eravamo più importanti della ricchezza”.
Perché è importante riscoprire oggi il pensiero e l’operato di Don Lorenzo Milani?
Innanzitutto, la prima ragione è che Don Milani, con i suoi insegnamenti e i suoi atti, sempre politici, ha ispirato la società italiana a coltivare il pensiero critico: in un’epoca di radicale cambiamento culturale quale sono stati gli anni Sessanta del Novecento, ha ricordato ai suoi ragazzi e a tutti che non bisogna accettare passivamente la propria condizione di predestinati all’ignoranza e al gradino più basso della società.
Che si può migliorare, si può coltivare ed esercitare la propria capacità di giudizio della realtà circostante e si può mettere in atto una vera e propria rivoluzione creandosi una cultura e un proprio punto di vista. Insegnando che la cultura è un volano per il progresso dell’intera società, inclusi i suoi componenti più fragili ed emarginati. Che la legge non è qualcosa di intoccabile, ma va sempre toccata quando non tutela anche i più deboli.
Che si può esercitare una disobbedienza civile potente ma non violenta, con le armi della parola: perché, parafrasando il titolo di un suo libro, “l’obbedienza non è più una virtù”. E’ facile immaginare che una persona e una figura come quella di Don Lorenzo Milani, nell’Italia di oggi, verrebbe marginalizzata o, peggio, messa a tacere: in una società in cui si professa la “scuola del merito”, un uomo che ha concepito l’insegnamento come ha fatto lui apparirebbe scomodo e del tutto non conforme al modello imposto.
In una società che vuole l’istruzione sempre più elitaria, un prete che metteva gli ultimi al primo posto sarebbe una figura decisamente fuori posto. Per Don Milani, semplicemente, il cosiddetto “merito” non esisteva, essendo l’istruzione un diritto universale e non appannaggio di pochi.
Controverse sarebbero anche le sue posizioni sui cosiddetti “stranieri”: stranieri che, per Don Milani, non erano gli uomini e le donne che migravano nel nostro Paese per assicurarsi un futuro migliore ma i privilegiati e gli oppressori. Ci immaginiamo la faccia di Giorgia Meloni nel sentir pronunciare simili parole, seppure da una figura ecclesiastica, per non parlare di quella di Matteo Salvini.
Senza contare il discorso sull’obiezione di coscienza e il ripudio della guerra (conforme, peraltro, alla nostra Costituzione): su un Paese che oggi si arma e che si esprime a sostegno della guerra, inclusa la guerra in Ucraina, siamo certi che Don Milani avrebbe parecchie cose da ridire. Però, per nostra sfortuna, è morto troppo giovane per potersi pronunciare in merito: stroncato da un linfoma a soli 44 anni, nel 1967, dopo aver vissuto in gioventù l’orrore della Seconda Guerra Mondiale.
Oggi, una mente lucida come la sua, a dare man forte alle dichiarazioni di Papa Francesco e a fare opposizione in modo mai remissivo né violento, varrebbe oro.