Che fare di Alice Munro?

Che fare di Alice Munro?

Alice Munro
Axel Oberg / Alamy

Il primo abuso sessuale a nove anni nel 1976 da parte di Gerald Fremlin, compagno della madre, nientemeno che Alice Munro, vincitrice del Nobel per la Letteratura e che sa tutto e non rivela nulla. Questa la denuncia di Andrea Robin Skinner (figlia della celebre autrice di racconti) pubblicata lo scorso 8 luglio sul Toronto Star. A distanza di trent’anni (con buona pace di chi delegittima le vittime che non denunciano subito), nel 2004 Skinner riferirà alla polizia gli abusi di cui si era reso responsabile Fremlin. Lui si dichiara colpevole e viene condannato ma, già ottantenne, non sconterà alcuna pena.

Munro sapeva di Fremlin da quando, anni prima, la figlia (ventenne) glielo racconta in una lettera. Alice reagisce come se avesse subito un tradimento, dice Andrea. La scrittrice non denuncerà mai, né darà sostegno alla figlia in alcun modo. La relazione tra le due, infine, si interrompe. Non quella con Fremlin.

«Ho amato Alice Munro più di qualsiasi altro artista. Non la leggerò più allo stesso modo» si legge nei giorni immediatamente successivi sul Toronto Star, mentre altri dichiarano più drasticamente di averla rimossa dalle loro letture.

La scrittrice canadese Margaret Atwood, anche lei parte del cosiddetto “rinascimento canadese”, movimento letterario degli anni ‘60 caratterizzato da una importante presenza femminile, ha scritto di esser rimasta “spiazzata” dalla vicenda Fremlin – Munro. «Penso che appartenessero a una generazione e a un luogo che spalavano le cose sotto al tappeto» ha commentato. In effetti, Skinner riferisce che gli abusi di Fremlin non sarebbero stati un segreto. Secondo il New York Times, Robert Thacker, autore di una biografia sulla scrittrice, era a conoscenza degli abusi almeno dal 2005. «L’ho vista come una cosa privata», ha commentato Thacker spiegando perché non avesse incluso i fatti in “Alice Munro: Writing Her Lives”.

Il saggio “Mostri. Distinguere o non distinguere le vite dalle opere d’arte” di Claire Dederer (Altrecose, 2024) è uscito qualche mese prima della denuncia di Skinner. Sviluppato a partire da un articolo comparso nel 2017 durante i primi mesi del #MeToo su The Paris Review, Dederer illustra il dilemma del secolo: si può distinguere l’opera da chi la crea?

L’autrice, ammiratrice della filmografia di Woody Allen e Roman Polanski, analizza nel dettaglio le biografie dei cosiddetti “geni” del cinema, della letteratura e dell’arte (uomini e donne), accomunati dall’aver consegnato al mondo memorabili capolavori e messo in atto violenze più o meno raccapriccianti contro altre persone. Nella lista di Dederer, tra i molti, si contano appunto Woody Allen che sposa la figlia adottiva della compagna Mia Farrow, Roman Polanski condannato per aver stuprato una tredicenne nel 1973, Michael Jackson accusato di pedofilia.

Ma anche una Virginia Woolf antisemita, che Dederer rintraccia in Casa Carlyle, una raccolta di appunti. «Non elencherò le molte e impertinenti osservazioni antisemite, ma scoprii che quel volumetto ne era disseminato» scrive Dederer. «Woolf chiamava scherzosamente il marito Leonard “il mio ebreo”. Ed è questo che complica tutto: lei era davvero sposata con un ebreo, e in quanto componente del gruppo di Bloomsbury avrebbe dovuto essere un modello di tolleranza».

Alla mostruosità materna Dederer dedica invece un capitolo a parte, esaminando le biografie della scrittrice Doris Lessing e della cantante Joni Michell. La prima lascerà il Sudafrica dove viveva con i figli e il marito alla volta di Londra, portando con sé solo il terzogenito. La seconda darà in adozione la figlia appena nata. «Se il crimine maschile è lo stupro, il crimine femminile è il mancato accudimento», scrive l’autrice. Dalla Nora di Casa di bambola fino alla Elena Greco de L’amica geniale, il tema dell’abbandono dei figli è stato ampiamente affrontato nella letteratura contemporanea, soprattutto in chiave femminista.

Eppure, Dederer ritiene che coloro che fruiscono dell’opera debbano separare il lavoro dell’artista dalla sua biografia. Difendendo, dell’arte, il valore autonomo: «Avevo bisogno, credo, della speranza che quella opera mi offriva», scrive. Resta comunque «fondamentale che le persone siano in grado di raccontare se sono state vittime di violenza».

In seguito all’articolo di Skinner, sono stati pubblicati numerosi passaggi estrapolati dai racconti di Munro. A voler dimostrare che, sebbene la scrittrice sia deceduta nel maggio 2024 e non possa replicare, sapesse: “L’oscenità era tutta dentro la sua testa, e non c’era ragione di farne dramma, attribuendole troppa importanza. Certo che no. Non era niente, giusto lerciume mentale” (Il sogno di mia madre, 1998). E ancora il ritratto di Patrick, personaggio di un racconto pubblicato negli anni ‘90, in cui alcuni hanno avvistato la descrizione dell’abusatore Fremlin: “Patrick aveva un modo di esprimere sorpresa, una sorpresa abbastanza sprezzante, quando le persone non sapevano qualcosa che lui sapeva, e un disprezzo simile, una sorpresa simile, ogni volta che si prendevano la briga di sapere qualcosa che lui non sapeva. La sua arroganza e la sua umiltà erano entrambe stranamente esagerate”. (Chi ti credi di essere?, 1977).

La lista dei mostri di Dederer andrebbe allora aggiornata con un altro capitolo: L’angelo del focolare. Alice Munro”. È la madre che sacrifica i figli per la coppia, la madre che sa tutto e non fa nulla. Quella che, restando, abbandona.

La Munro – scrittrice, invece, colei che conosce le parole giuste per dire l’orrore e la meraviglia di ciò che accade tra le mura domestiche, le testimonianze di vicende raccapriccianti (dove nessuno è innocente mai) ce le ha consegnate già. Proprio nei suoi racconti. Leggerli potrebbe aiutarci a capire cosa ha vissuto Andrea Robin Skinner.

Condividi

Sullo stesso argomento