Lo scorso 30 maggio una giuria di New York ha giudicato colpevole Donald Trump di aver falsificato i libri contabili della raccolta finanziaria per la campagna elettorale presidenziale del 2016. I capi d’accusa sono 34, e per tutti il verdetto è stato di colpevolezza: con i soldi scomparsi dalla contabilità Trump avrebbe pagato la pornoattrice Stormy Daniels, con la quale aveva avuto almeno un rapporto sessuale, per comprare il suo silenzio e impedirle di montare uno scandalo che sarebbe potuto costare al tycoon l’elezione a presidente. La pena per il reato contestato, che sarà resa nota l’11 luglio, potrebbe andare da una semplice multa alla reclusione per un massimo di quattro anni.
Quattro processi per una elezione
Non si tratta dell’unico processo a carico di Donald Trump attualmente in corso. Il candidato repubblicano è imputato in quattro diversi processi in altrettanti stati americani. Oltre al processo a Manhattan nell’ambito dell’affaire Stormy Daniels, infatti, Trump è imputato anche in Georgia, in Florida e a Washington D.C., e i capi d’imputazione, in questi casi, sono di gran lunga più pesanti rispetto a quelli del processo newyorkese.
Innanzitutto, Donald Trump è accusato di aver tentato di ribaltare il risultato delle elezioni in Georgia nel 2020. Anche se esistono perfino prove telefoniche di queste pressioni esercitate da Trump, la data del processo è tuttavia rinviata a tempo indeterminato, e non a causa di una manovra dell’ex presidente, ma piuttosto per lo scandalo che ha investito il procuratore generale Fani Willis, che ha ammesso di aver avuto una relazione con Nathan Wade, procuratore che ha istruito l’inchiesta contro Trump. A Washington D.C. Trump è invece accusato del tentativo di sovvertire il risultato delle elezioni del 2020 a livello federale, ma anche in questo caso il processo procede a rilento: la Corte Suprema deve ancora emettere il verdetto a proposito di una possibile immunità assoluta di Trump che, in tal caso, potrebbe non essere imputabile di un reato commesso nel periodo in cui era alla presidenza.
In Florida, infine, Trump è imputato in un altro processo di livello federale: accusato di aver sottratto documenti riservati e di averli portati nella propria residenza di Mar-a-lago, Palm Beach, l’ex presidente ha visto anche in questo caso rinviare a data da destinarsi il giorno dell’udienza. Il procuratore generale Aileen Cannon, nominata dallo stesso Donald Trump quando era presidente, ha infatti cancellato l’udienza prevista per il mese di maggio senza fissare una nuova data. Quattro processi, dunque, celebrati quasi in contemporanea, tre dei quali però sono in un empasse evidente che non si risolverà prima della tornata elettorale.
Tutti gli uomini del Presidente (e qualche sciamano)
Durante il processo a Manhattan il senatore dell’Ohio James David Vance, noto per essere stato molto critico della candidatura di Donald Trump nel 2016 e per averlo poi sostenuto durante il primo mandato presidenziale, è andato a trovare il tycoon durante il processo. Il suo commento non si è fatto attendere: ha detto ai giornalisti di essere in aula per sostenere un amico costretto ad affrontare in solitudine un processo per il quale sa di essere innocente. Al netto della teatralità delle parole di Vance, in realtà Trump è tutt’altro che solo nell’affrontare questa sentenza. Dietro di lui si è schierato il gotha dei suoi sostenitori, anche fisicamente: tutti vestiti uguali, con la stessa giacca e la stessa cravatta, i sostenitori istituzionali di Trump si sono posizionati a pochi passi dall’imputato e lo hanno affiancato nelle brevi conferenze stampa tenute a favore dei pochi giornalisti ammessi durante le pause del processo.
Dentro alla sala delle udienze si sono schierati anche Nicole Malliotakis, eletta alla Camera dei Rappresentanti per Staten Island e parte di Brooklyn, e Tommy Tuberville, senatore repubblicano dell’Alabama, che si è lamentato a suo dire di “uno spettacolo deprimente. Continuo a sentire ‘Mr. Trump, Mr. Trump’. Lui è l’ex presidente Donald Trump, portategli un po’ di rispetto”. Tra i presenti anche importanti membri delle istituzioni, come lo speaker della Camera Mike Johnson, che si è detto sicuro dell’innocenza dell’ex presidente, insieme a Byron Donalds e Cory Mills, due politici repubblicani eletti rappresentanti per la Florida. Insomma, una truppa compatta che in alcuni casi assomiglia a una sfilata dei possibili contendenti per il posto di vicepresidente nell’attuale competizione elettorale.
Ma il sostegno a Donald Trump è presente anche al di fuori dell’aula di tribunale: una piccola folla si è riunita per le strade di Manhattan per supportare il tycoon in quella che lui ha chiamato con toni berlusconiani la propria “persecuzione giudiziaria”. Si tratta di esponenti del movimento MAGA (Make America Great Again) e di organizzazioni laterali favorevoli all’ex presidente, fra cui anche “Jews for Trump” e – sorprendentemente – “Gays for Trump”. Presenti, nel settore più pittoresco del presidio, anche alcuni sedicenti sciamani, molto simili a quelli già visti in azione alcuni anni fa durante l’invasione della sede del Congresso degli Stati Uniti, che avrebbero benedetto solennemente il candidato repubblicano, allontanando gli spiriti maligni. Tuttavia, al momento del pronunciamento della sentenza, questa folla è stata messa in ombra da un gruppo molto più grande di manifestanti anti-Trump, giunti sul posto per rimarcare un concetto già espresso dall’attore Robert De Niro alcuni giorni prima in un comizio improvvisato fuori dal tribunale di Manhattan: “Se Trump tornerà alla Casa Bianca credetemi, potrete dire addio alla democrazia”.
Le conseguenze della sentenza
Il sostegno a Trump non si è espresso soltanto dentro e fuori dall’aula del tribunale. Subito dopo la sentenza dei dodici cittadini newyorkesi la notizia è diventata virale, e la comunità online dei sostenitori di Trump non si è fatta attendere. In poco più di due ore il team del tycoon ha raccolto oltre 70 milioni di dollari sul sito Winred, attraverso il quale vengono raccolti i fondi per la campagna elettorale di Donald Trump provenienti da donazioni private. Questo sembrerebbe un segnale della solidità del consenso per Donald Trump, che effettivamente potrebbe godere di inaspettati benefici mediatici come risultato dei propri guai giudiziari: come disse lui stesso nel 2016, “potrei sparare a qualcuno sulla Quinta Strada (a New York) e non perdere voti”.
In realtà le cose non stanno proprio così. Secondo il recente sondaggio della CBS Joe Biden e Donald Trump si dividerebbero a metà l’elettorato: 49% per il candidato democratico, 50% per quello repubblicano. Rispondendo a un’altra domanda, il 50% degli statunitensi giudica giusta la condanna all’ex presidente, e il 47% pensa che Trump dovrebbe abbandonare la competizione elettorale. Il primo effetto di questa condanna è stato dunque la polarizzazione dell’elettorato fra chi considera giusta la sentenza e coloro i quali si sono stretti attorno al proprio candidato contro il cosiddetto deep state: letteralmente lo “Stato profondo”, che starebbe orchestrando un complotto atto a impedire a Trump di candidarsi alle prossime elezioni.
In realtà, anche una volta condannato, non ci sono impedimenti legali alla candidatura di Trump, che potrà perfino essere eletto anche se dovesse trovarsi già in carcere a novembre. Non è una situazione del tutto nuova per la politica statunitense: certo, nessun candidato alla presidenza è mai stato condannato durante la competizione elettorale, né un ex presidente ha mai subito una condanna penale. Tuttavia, ci sono precedenti più o meno illustri di candidati presidenti che si trovavano in carcere durante la competizione elettorale. Eugene Debs, leader del sindacato dei ferrovieri, venne candidato dal Partito socialista alle elezioni del 1920 dopo essere stato condannato a dieci anni di prigione per alcuni discorsi antimilitaristi pronunciati nel 1918 e prese circa un milione di voti. In tempi più recenti Keith Russell Judd, condannato per estorsione nel 1999 a 17 anni e mezzo di prigione e rilasciato nel 2013, ha partecipato dal carcere alle elezioni del 2008 e del 2012, peraltro conquistando un sorprendente 41% nelle primarie democratiche del West Virginia disputate contro Barack Obama.
Entrambi questi esempi, però, sono molto lontani dalla situazione che è oggi sotto i nostri occhi: oltre alle abissali differenze politiche fra Debs e Trump, la cui condanna per ragioni fiscali richiama alla memoria più che altro la figura di Al Capone, il tycoon resta oggi il principale candidato repubblicano nella corsa alla Casa Bianca e un potenziale vincitore di questa competizione elettorale. Più che una sentenza di un tribunale, dunque, saranno gli elettori a novembre a decidere se permettere o meno a Donald Trump di guidare il Paese per una seconda volta.
Davide Longo