Oltre un mese di interviste, raccolta dati e testimonianze della redazione de L’Atlante ci ha portato a interrogarci sul senso profondo di cosa voglia dire oggi vivere in uno stato totalitario. L’Ungheria di Viktor Orbán è stato il nostro primo terreno di studio, altri ne verranno, ma iniziamo a condividere con i lettori il frutto delle nostre ricerche.
L’Ungheria di oggi è una dittatura? Durante un mese di raccolta dati e interviste tra le città e le campagne magiare ho posto questa domanda a decine di persone diverse, dai rappresentanti dei partiti d’opposizione ai rom nelle case popolari senz’acqua e corrente del nord del Paese e nessuno è riuscito a darmi una risposta chiara. La maggior parte degli intervistati preferiva glissare sull’argomento o chiedeva di non registrare la risposta. I pochi che non si sono tirati indietro mi hanno dato la stessa risposta: “no, però…”.
Ci sono molti distinguo da fare, alcuni logici e altri molto meno evidenti. Il primo è che l’anno prossimo si terranno le elezioni e Fidesz, il partito dell’attuale primo ministro Viktor Orbán, potrebbe anche perdere.
Al potere dal 2010, oggi Orbán è il re dell’Ungheria e ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana del Paese. Sul piano interno due sono gli strumenti principali che gli hanno permesso di mantenere il potere così a lungo: il controllo dei media e le riforme costituzionali. Il primo l’ha ottenuto grazie alla riforma del 2010 che consegnava al governo l’80% dei canali di informazione, il secondo per mezzo della nuova legge elettorale del 2012 che sembra cucita addosso a Fidesz e che da 11 anni assicura al partito più dei due terzi dei seggi nell’Assemblea Nazionale consentendogli di approvare riforme costituzionali senza bisogno di alleanze.
Al potere dal 2010, oggi Orbán è il re dell’Ungheria e ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana del Paese. Sul piano interno due sono gli strumenti principali che gli hanno permesso di mantenere il potere così a lungo: il controllo dei media e le riforme costituzionali. Il primo l’ha ottenuto grazie alla riforma del 2010 che consegnava al governo l’80% dei canali di informazione, il secondo per mezzo della nuova legge elettorale del 2012 che sembra cucita addosso a Fidesz e che da 11 anni assicura al partito più dei due terzi dei seggi nell’Assemblea Nazionale consentendogli di approvare riforme costituzionali senza bisogno di alleanze.
I rapporti economici con la Germania
Sul fronte internazionale la solida alleanza con i costruttori di auto tedeschi, il gruppo Volkswagen in particolare, assicura al primo ministro magiaro un appoggio strategico fondamentale in seno allo stato leader dell’UE nonché, secondo l’Istituto Centrale di Statistica ungherese, tra il 9,5 e il 13,5% del PIL nazionale annuo (dati 2019). È significativo notare che fin dall’insediamento di Orbán, i giornali tedeschi sono stati i suoi più attivi detrattori, con picchi durante la crisi migratoria del 2015 e nella primavera del 2021 contro la legge anti-lgbtq. La stessa Cancelliera Angela Merkel non ha mai lesinato le critiche al suo vicino, soprattutto in seguito all’apertura ai migranti e al cambio di rotta sugli Eurobond ma, di fatto, si tratta di un gioco che conviene a entrambi. Dal 2014 in poi l’Ungheria ha assunto il ruolo di cattivo del continente, ma è altrettanto vero che avere un guardiano così rigido alle porte d’Europa è convenuto a tutti gli stati membri, tant’è che fino alla primavera del 2021, ovvero fino all’approvazione della cosiddetta legge anti-pedofilia, che in sostanza è una legge omofoba, non sono mai state attuate misure sanzionatorie per Budapest. Dopo anni di minacce più o meno esplicite l’Unione Europea ha aperto una “procedura di infrazione” che punta a fare pressione con lo spauracchio dei tagli ai fondi destinati all’Ungheria se il Paese non si adeguerà agli standard continentali. Orbán, per tutta risposta, ha commentato che lancerà un referendum per dimostrare all’Europa che gli ungheresi sono dalla sua parte.
La macchina del fango
D’altronde, sui media ungheresi gli attacchi della stampa estera sono (quasi) un motivo di vanto: le democrazie liberali sono in crisi d’identità e Orbán è fiero di essere a capo di una “democrazia illiberale” (così come egli stesso l’ha definita). La propaganda è massiccia e incessante e c’è sempre un nemico in agguato. All’inizio erano i socialisti, poi i migranti, la lobby lgbtq, i rom, l’Unione Europea. Senza contare l’antisemitismo strisciante della classe dirigente che imputa a George Soros tutte le teorie complottiste possibili. I media locali, che sono controllati principalmente dal governo o da personaggi strettamente legati al partito del Primo Ministro, Fidesz, da anni parlano delle “ingerenze europee” che vorrebbero stravolgere lo stile di vita tradizionale della famiglia cristiana bianca ungherese e negli ultimi mesi si soffermano con particolare insistenza sul “nostro” odio verso di loro. Le strade sono tappezzate di cartelli blu con scritte gialle che recitano più meno “Sei arrabbiato con Bruxelles?” e sotto una emoji a cui esce il fumo dal naso. Tutti sanno che si tratta di una sorta di campagna elettorale permanente, sono domande retoriche fatte per ricordare alla popolazione chi è l’unico che sta dalla loro parte. E, oltretutto, trattandosi di “comunicazione istituzionale”, sono pagate con soldi pubblici.
Le riforme liberticide
D’altronde la comunicazione è da sempre l’arma più potente di Fidesz (e non è difficile trovare affinità storiche di questa pratica). Un’infaticabile macchina del fango che ha permesso di approvare la “legge schiavitù” del 2018 che innalzava a 400 ore annuali il tetto di ore di straordinario legale. Orbán dichiarò che finalmente chi voleva guadagnare di più aveva il diritto di farlo. In altri termini, chi restava povero sceglieva di esserlo. Nello stesso anno un emendamento costituzionale stabiliva che dormire all’aperto in luoghi pubblici era illegale e quindi che i senzatetto diventavano criminali. Allo stesso modo Fidesz è riuscita ad introdurre riforme che gli hanno permesso di controllare i sindacati, di imbavagliare i media indipendenti in nome della “sicurezza nazionale”, di ammutolire o ridicolizzare l’opposizione politica interna, di costruire una recinzione elettrificata di 175 km al confine con la Serbia, di decurtare fondi dalla scuola pubblica per assegnarli alle scuole religiose, di impiegare in massa poveri e rom nei lavori pubblici per 200 € al mese e licenziare i dipendenti statali che ora sono disoccupati e credono che “gli zingari gli abbiano rubato il lavoro”, di equiparare la pedofilia all’omosessualità, di smantellare le università e metterle sotto il controllo di fondazioni private istituite ad-hoc e presiedute da sodali di Orbán. In parallelo il governo ha anche smantellato la CEU (l’Università del Centro Europa) voluta e finanziata da George Soros a inizio anni ’90 e al suo posto ha firmato un accordo miliardario per la costruzione di una succursale dell’Università cinese di Fudan. Molti analisti vedono in quest’accordo solo la punta dell’iceberg delle nuove relazioni economiche e strategiche tra Ungheria e Cina.
La situazione dei diritti civili è, com’è evidente, al limite. Oltre a determinare un’impennata del costo della vita paurosa: a titolo di esempio si consideri che un insegnante a Budapest spende in media il 70% del suo salario per un affitto e un agente di polizia è spesso costretto ad avere un secondo lavoro come trasportatore o rider per sbarcare il lunario. Senza contare i ripetuti tentativi di porre anche la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo, culminati, all’inizio del 2020, con l’istituzione di tribunali speciali chiamati ad esprimersi su varie questioni: dal diritto di assemblea alla stampa, dagli appalti pubblici alle elezioni. Il compito di controllare i nuovi tribunali e nominare i nuovi giudici è stato affidato al ministro della Giustizia.
Ultima in ordine temporale, la legge sulla cosiddetta prevenzione della pedofilia ha creato molto scalpore. Di fatto, la riforma in questione è una legge omofoba che accomuna la pedofilia all’omosessualità e vieta la propaganda di contenuti che diffondano un’idea diversa di famiglia rispetto a quella in cui c’è un padre maschio e una madre femmina.
Non importa, però, nei notiziari non si possono riportare notizie di cronaca nera in percentuali maggiori del 20% e non si può turbare la tranquillità pubblica a meno di non voler incorrere in multe salatissime o nella sospensione delle pubblicazioni. Negli anni si è creata una situazione in cui non esiste il contraddittorio e “se un migrante piscia su un muro a Stoccolma la TV ungherese ne parla per due settimane”, come mi hanno raccontato dei ragazzi.
“La mia Ungheria” ha dichiarato Orbán nel 2014 durante un discorso alla nutrita comunità di connazionali abitanti in terra romena cui il premier ha concesso il voto in patria in cambio del 95% di preferenze alle ultime due elezioni, “è una democrazia illiberale”. Con una semplice formula questo politico venuto dal nulla ha riassunto tutte le debolezze dei nostri sistemi e ha definito un’idea. La stessa idea alla quale si ispirano i populisti di mezzo mondo per utilizzare le debolezze degli attuali sistemi politici per il proprio tornaconto.
Sulla scena politica ungherese da più di trent’anni, da quando osteggiava apertamente il governo filo-Urss dichiarando che “i sovietici ci hanno rubato il futuro”. È il giovane della campagna che si presentava come nemico della “casta”, l’uomo del popolo, “quello che parlava e si vestiva male” (come ricordano in molti) e che veniva sbeffeggiato dall’intellighenzia cittadina. E le tracce di questo passato di vedono ancora oggi: in provincia il capo di Fidesz ha più dell’80% dei voti, a Budapest solo 6 seggi su 18. Ma è anche l’uomo della provvidenza, colui che ha affossato il Partito Socialista di Ferenc Gyurcsány travolto dallo scandalo delle intercettazioni diffuse nel 2006 nelle quali l’ex-premier dichiarava di aver mentito agli ungheresi “mattina, pomeriggio e sera”.
I cittadini
L’ungherese medio di certo non è cieco, né tantomeno masochista ma non si può negare che la propaganda, soprattutto se portata avanti per anni e anni, funzioni. I dissidenti, per così dire, interrogati di fronte alla telecamera su una qualsiasi delle problematiche sopracitate rispondono generalmente che “non si occupano di politica” e poi, a telecamere spente, rivelano di aver paura di ripercussioni. Che tipo di ripercussioni? E a questo punto emerge il lato diabolico della questione: si ignora il pericolo, non si è in grado di definirlo, si sa solo che c’è. La violenza fisica non c’entra nulla, è qualcosa di più sottile: problemi sul posto di lavoro per sé o per i propri familiari, rifiuto di aiuti sociali, problemi a eventuali concorsi o nelle graduatorie pubbliche… non è chiaro, è il “però” del quale parlavamo all’inizio, un enorme punto interrogativo che spaventa più o meno inconsciamente la società ungherese contemporanea.
Eppure, in un Paese di dieci milioni di abitanti dove i figli della borghesia liberale espatriano sempre prima e la popolazione invecchia, il discorso fa presa. E le critiche dell’Unione Europea non fanno che rafforzare la retorica del giusto tra gli improbi, del difensore della cristianità dal pervertissement liberale delle lobby ricche.
Allora la borghesia benestante manda i propri figli nelle scuole private, gli fa imparare l’inglese e li spinge a frequentare l’università all’estero, questi ragazzi in genere sono i più disillusi sul futuro del proprio Paese. Gli altri, quelli che non possono permettersi di partire girano per le strade e vedono i manifesti blu con scritte gialle che chiedono “Sei arrabbiato con Bruxelles” e un emoji (proprio quelle dei sistemi di messagistica on-line) a cui esce il fumo dal naso, “Vuoi che ritornino i tempi di Gyurcsány?” e la faccina che impreca, “Vuoi alzare il salario minimo?” con faccina sorridente. Non è uno scherzo, si tratta di consultazioni nazionali indette ufficialmente dal governo e pagate con soldi pubblici, in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi su domande il più delle volte tautologiche o pretestuose utilizzate come campagna elettorale a costo zero e dimostrazione del consenso popolare.
La religione
Durante il breve incontro di metà settembre 2021 scorsa, Orbán ha offerto a Papa Francesco la copia di una lettera che nel 1243 il re Béla IV di Ungheria spedì a Papa Innocenzo IV per informarlo che avrebbe fortificato le difese lungo il Danubio per prepararsi all’invasione dei mongoli. Qualche settimana prima, il 20 agosto, durante la festa di Santo Stefano che quest’anno è costato il triplo degli anni passati solo in fuochi d’artificio, si è inaugurata gratuitamente la “Sala di Santo Stefano”, il re ungherese che cristianizzò il Paese e, a fine giornata, nel cielo sopra il Danubio una flotta di droni illuminati ha formato un’enorme croce al centro del fiume. La religione è uno dei pilastri della comunicazione di Orbán. Significa difesa delle tradizioni, senso di appartenenza, identità di massa, tutti concetti che sono alla base della retorica nazionalista di Fidesz.
Conclusioni
Non è la paura del carcere, della polizia segreta, della repressione violenta, niente di tutto ciò. Anche perché, aggiunge qualcuno, ormai hanno capito che la violenza si fa notare. Neanche le manifestazioni, sebbene regolate da una nuova riforma costituzionale che le limita fortemente, sono proibite. Ed è molto raro che intervengano i reparti antisommossa a sgomberare le piazze. Tanto poi ci sono le telecamere, non si dimentichi che l’Ungheria è uno dei Paesi più controllati del Vecchio Continente. È l’ignoto a spaventare gli ungheresi di oggi, quella zona grigia in cui il potere è riuscito a diventare egemone costruendo roccaforti di paura e paranoia. Inattaccabili, dal punto di vista legale, le riforme di Fidesz sono scritte badando al più piccolo cavillo, nessuno potrebbe smontarle facilmente. Candida è la figura del padre di famiglia che abbraccia i suoi numerosi figli minacciati dal “diverso che viene da fuori”, in tutte le declinazioni possibili che questo pericolo può assumere e che abbiamo provato a sintetizzare. Ora siamo a un possibile punto di svolta, la prossima primavera, questo meccanismo perverso di mantenimento del potere quasi perfetto potrebbe rompersi. Potrebbe perdere Orbàn, potrebbe cadere la classe dirigente di Fidesz dopo 12 anni ininterrotti. Ma chi verrà avrà la forza politica di cambiare le cose? Riuscirà a sostituire agli oligarchi delle nuove figure che esprimano cambiamento? Sono domande che in molti si pongono e alle quali si ha spesso paura di dare risposta. Quella “paura” che ricorre e che forse è il tratto più forte del discorso autoritario orbaniano. Resta il fatto che il successo più grande delle politiche oppressive di Orbàn è stato quello di creare il vuoto intorno al suo partito e di dividere per oltre una decade i suoi oppositori. Staremo a vedere se questo risultato riuscirà a metterlo al riparo anche da un’eventuale sconfitta elettorale. In quel caso il “però” iniziale potrebbe presto assumere toni ben più disperati.
Sabato Angieri