Da Nasrin Sotoudeh a Armita Geravand, un’altra morte sospetta infiamma l’Iran

Da Nasrin Sotoudeh a Armita Geravand, un’altra morte sospetta infiamma l’Iran

armita geravand

A un anno dalla morte di Mahsa Amini l’oscuro decesso della sedicenne Armita Geravand rischia di far precipitare nuovamente la situazione in Iran. Israele permettendo.

Giornalisti picchiati, manifestanti arrestati, cimitero di Behesht-e-Zahra militarizzato: questo lo scenario che domenica 29 ottobre, giorno del funerale di Armita Geravand, si è presentato agli occhi dei familiari della sedicenne morta a Teheran in circostanze oscure dopo quasi un mese di coma. Tra gli arrestati si conta anche la celebre avvocata Nasrin Sotoudeh, 60 anni, vincitrice del premio Sakharov 2012 del Parlamento europeo per il suo lavoro sui diritti umani e già arrestata per aver difeso una donna che manifestava contro l’obbligo di indossare il velo. «Mia moglie è stata arrestata durante il funerale di Armita Geravand insieme ad altre persone», ha dichiarato il marito Reza Khandan all’agenzia France-Presse aggiungendo che, durante l’arresto, Sotoudeh sarebbe stata «violentemente picchiata». Secondo quanto riportato dal Guardian, la donna è stata tratta in arresto per non aver indossato l’hijab. Nel 2021, per aver difeso i diritti delle donne iraniane, Sotoudeh era già stata condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate.

Nonostante ciò l’avvocata non ha rinunciato a presenziare al funerale di Armita Geravand, giovane di origine curda della provincia di Kermanshah che viveva a Teheran con la famiglia. Una morte avvenuta in circostanze oscure e che ricorda quella di appena un anno prima della ventiduenne Mahsa Amini. Nel settembre 2022 Amini morì dopo esser stata arrestata e trattenuta dalla polizia religiosa di Teheran perché indossava “in maniera impropria” l’hijab. L’evento aveva dato il via a una mobilitazione imponente delle donne iraniane che aveva attraversato il Paese al grido di “Donna, vita, libertà”.

Anche di fronte alla morte di Geravand la polizia religiosa iraniana sostiene l’ipotesi del malore: poco dopo esser salita alla fermata della metropolitana Shohada di Teheran la ragazza avrebbe avuto un calo di pressione e sarebbe svenuta sbattendo la testa. Secondo l’organizzazione per i diritti umani Hengaw che si occupa della minoranza etnica curda dell’Iran, Geravand avrebbe invece subito «una grave aggressione fisica» da parte della polizia morale. Esanime, sarebbe stata scortata dalla polizia all’ospedale Fajr di Teheran, mentre i telefoni dei familiari sarebbero stati immediatamente confiscati.

«È stata aggredita fisicamente dalle autorità alla stazione di Shohada perché non indossava l’hijab», ha dichiarato Hengaw. Versione confermata da altri attivisti per i diritti umani all’agenzia di stampa Reuters e respinta dall’IRNA, l’agenzia di stampa statale iraniana e da Masood Dorosti, direttore della  metropolitana di Teheran secondo cui non si sarebbero verificati conflitti tra Geravand e altre persone nel convoglio della metropolitana. I tristemente noti filmati delle telecamere a circuito chiuso non spiegano molto dell’accaduto. Mostrano la giovane salire sul vagone della metropolitana con altre ragazze. A capo scoperto. Un dettaglio che è difficile pensare non abbia infastidito la polizia religiosa istituita nel 2005 per far rispettare le leggi sulla morale pubblica. In seguito alle proteste per la morte di Amini la polizia morale era stata ritirata dalle strade, ma da luglio ha ripreso la sua attività.

È per scongiurare una possibile ripresa delle proteste che la Repubblica Islamica dell’Iran (che, paradossalmente, dal 3 novembre sarà alla presidenza del Forum ONU per i diritti umani) gioca la carta dello storico astio verso lo stato di Israele. Strategia che consiste principalmente nel sostegno economico e militare all’asse della resistenza (anti-israeliana e anti-statunitense), ovvero Hamas e altri gruppi presenti in Libano, Siria, Iraq e Yemen, con i quali tuttavia il rapporto è spesso complesso (a titolo di esempio, Hamas è un gruppo sunnita, l’Iran è presieduto da un regime sciita). Senza però poter aspirare ad aprire un conflitto diretto con Israele, per diverse ragioni. Entrare in guerra con Israele significherebbe aprire infatti un conflitto con gli USA dai costi incalcolabili. Una scelta suicida che porterebbe a una probabile crisi irreversibile del sistema politico iraniano. Già messo gravemente in crisi dalle proteste delle donne e della società e che non accennano a spegnersi, nonostante le centinaia di morti e le migliaia di arrestati.

 

 

 

 

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