«Serena Bortone doveva essere licenziata per quello che ha fatto e invece non è stata punita». Queste le parole dell’amministratore delegato Rai Roberto Sergio contro Serena Bortone, la conduttrice di Chesarà… talk show di Rai3 che (ormai è certo) è stato escluso dai palinsesti autunnali. Alla vigilia dello scorso 25 aprile, Bortone aveva accusato la Rai di aver censurato il monologo dello scrittore Antonio Scurati sull’assassinio di Giacomo Matteotti. La replica dei vertici non si era fatta attendere, affermando che le ragioni della cancellazione erano esclusivamente di natura economica, versione che Scurati ha sempre smentito. In seguito, altri intellettuali e giornalisti hanno denunciato di esser stati coinvolti in prima persona in casi analoghi a quello di Scurati.
Ma è da mesi che il clima nel settore dell’informazione è bollente. «La maggioranza di governo ha deciso di trasformare la Rai nel proprio megafono», denunciava il sindacato dei giornalisti Rai Usigrai poco prima dell’affaire Bortone. Le tensioni tra stampa e governo sono note anche all’estero: tra chi segnala l’attacco alla libertà di informazione in Italia si contano infatti voci internazionali come Al Jazeera, il Guardian e El Paìs. Eppure, invitata a un evento del giornale La Verità, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha smentito l’esistenza di quella “Tele Meloni” di cui opposizione e parte della stampa la accusano, servendosi dei dati dell’Osservatorio di Pavia sulla presenza dei presidenti del Consiglio in tv.
Tuttavia, secondo Pagella Politica le cose stanno diversamente: «Se si prende il “tempo totale”, Meloni è prima, con una media mensile di 376,1 minuti, davanti al secondo governo Conte (350,6), al primo governo Conte (286) e a Draghi (264,1). In parole semplici, nei primi 14 mesi di governo, i telegiornali della Rai hanno dedicato più minuti a Meloni rispetto a quanto fatto per Draghi e Conte. Ricordiamo infatti che il “tempo totale” conteggia l’attenzione complessiva che un telegiornale dedica a un singolo politico, a prescindere che parli o meno». Meloni, invece, si è difesa citando i dati del “tempo di presenza” dei premier che l’avevano preceduta, ovvero il tempo in cui si sente il politico parlare direttamente.
Ma il tema della pluralità e della libertà di stampa non riguarda solo la Rai. Mentre Usigrai dichiarava sciopero, la redazione di Repubblica sfiduciava il direttore Molinari per aver censurato un articolo su Stellantis di Giovanni Pons, mentre i giornalisti di Agi protestavano contro la vendita della storica agenzia al deputato leghista Antonio Angelucci.
Di metà maggio è invece la decisione di sospendere e licenziare Cristina Sivieri Tagliabue, direttrice de La Svolta, quotidiano online attivo sui temi dell’ambiente e dei diritti, dopo aver pubblicato una nota in cui informava i lettori che l’editore Pietro Colucci era coinvolto nelle inchieste di Genova. Il sito, prima oscurato, è tornato visibile con un comunicato di Sivieri Tagliabue in cui si spiega che le pubblicazioni sono sospese. Usigrai, Fnsi e GiULiA giornaliste hanno espresso «piena solidarietà per un provvedimento disciplinare inaccettabile nei confronti di una giornalista e direttrice che ha fatto il suo dovere: informare i lettori», sottolineando come la vicenda abbia permesso di «far emergere il gravissimo vuoto contrattuale nella testata, dove non esistono rapporti di lavoro dipendente a parte quello della direttrice licenziata e quindi la totale assenza di una copertura sindacale».
Dell’ultimo giorno di maggio è lo sciopero della redazione de L’Espresso, ceduto nel marzo 2022 dal gruppo Gedi a Bfc media: «L’Espresso cambia oggi il terzo direttore in meno di un anno» ha fatto sapere in una nota il Comitato di redazione, denunciando «l’ennesimo tentativo di intromissione dell’azienda sul contenuto degli articoli».
Anche la carta stampata non gode di ottima salute: il 3 giugno Alessandro Barbano è stato sollevato dall’incarico di direttore del quotidiano romano Il Messaggero attraverso un laconico comunicato di poche righe che si concludeva con quest’espressione: «Termina oggi la direzione di Alessandro Barbano». Significativo quel che ha detto Carlo Romeo, giornalista che aiuta a condurre «Stampa e Regime» di Radio radicale, commentando il comunicato apparso sul quotidiano: «Sono sette parole. D’accordo che il mondo di Caltagirone è anche quello degli editori à la Angelucci ma, a volte, la forma è anche sostanza».
La direzione di Alessandro Barbano è durata poco più di un mese, neanche il tempo di acclimatarsi a Via del Tritone che già ha dovuto preparare gli scatoloni del metaforico trasloco. L’assemblea dei redattori del Messaggero ha protestato contro la decisione attuando lo sciopero delle firme fino al 10 giugno: «L’assemblea chiede alla direzione chiarimenti sul futuro del giornale e l’attuazione di un piano editoriale dettagliato e condiviso con i giornalisti. Chiede altresì che venga conservato il clima di fattiva collaborazione e serenità all’interno della redazione, dà mandato al Comitato di redazione di vigilare affinché non ci siano cambi di rotta su questi punti fondamentali».
Al netto dell’azione di sciopero, resta il modo, freddissimo, con cui l’editore ha liquidato l’ex direttore il quale, tra le altre vicissitudini, aveva ricevuto l’incarico di dirigere Il Riformista dopo la co-reggenza di Matteo Renzi e Andrea Ruggieri. Anche in quel caso, la guida del Riformista è durata un mese: ricevuto l’incarico l’11 marzo, il 17 aprile avrebbe lasciato per approdare al Messaggero.
‘Riformista Viva’
Nell’articolo di saluto ai lettori, Andrea Ruggieri (vero direttore del quotidiano dato che giornalista mentre Matteo Renzi formalmente non lo era), ha scritto: «[…] Si era malignato sarebbe stato [Il Riformista] un laboratorio politico mascherato da giornale; o mezzo per regolare qualche conto tra politici. Nulla di tutto ciò è avvenuto: l’avevamo promesso, e siamo stati di parola».
Non parrebbe ci sia stato un conto da regolare «tra politici» anche se, a voler essere maligni: excusatio non petita…
La prima parte dell’ultimo periodo del comunicato è più rilevante ai fini dell’analisi che state leggendo: «si era malignato sarebbe stato un laboratorio politico mascherato da giornale», così come Matteo Renzi al principio dell’avventura aveva sentenziato che non si sarebbe trattato di una sorta di megafono politico di Italia Viva.
Eppure il 2 maggio dello scorso anno, ventiquattro ore prima dell’assunzione della direzione editoriale, il segretario di Italia Viva pubblicava un articolo a sua firma, corredato con tanto di foto-fermo immagine dal programma Cinque Minuti di Bruno Vespa (zio di Ruggieri) che lo ritraeva, titolo: «I riformisti? Sempre animati dalla passione per la realtà, non per l’ideologia». Non sarà stato il megafono politico di Italia Viva, ma sicuramente ha rappresentato una viva presenza di Renzi in edicola (in termini di editoriali, articoli d’opinione e via dicendo).
Visti dagli altri
Secondo l’editoriale del 12 maggio, all’indomani del caso Scurati, apparso sul Guardian: «l’ultimo report sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere, l’Italia è crollata nelle classifiche internazionali. Un fattore cruciale nel rapporto è stato il desiderio del governo di destra radicale di Giorgia Meloni di svendere un’agenzia di stampa controllata dallo stato a un barone della stampa – uno che guarda caso è un deputato nella coalizione del suo governo. Ma in uno degli stati membri più importanti dell’Unione Europea, mentre la coalizione della destra radicale guidata dalla Meloni consolida la sua presa sul potere, ci sono molte altre ragioni per temere riguardo il futuro della libertà di espressione e dell’imparzialità dei media».
Nel documento diffuso ad inizio maggio da Reporter senza frontiere si legge, a proposito dell’Italia: «La libertà di stampa continua ad essere minacciata dalle organizzazioni mafiose, soprattutto nel sud del Paese, nonché da vari piccoli gruppi estremisti violenti. I giornalisti denunciano anche i tentativi da parte dei politici di ostacolare la loro libertà di coprire i casi giudiziari attraverso una “legge bavaglio” – – oltre alle procedure denominate SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation, querele temerarie contro la pubblica partecipazione ovvero azioni legali intentate non per vincere una controversia legittima, ma per intimidire, imbavagliare coloro che cercano di partecipare e di esprimersi su questioni di interesse pubblico) che sono una pratica comune in Italia».
Serena Ganzarolli, Marco Piccinelli