Democratici USA, dopo le elezioni esplodono le contraddizioni

Democratici USA, dopo le elezioni esplodono le contraddizioni

All’indomani della vittoria schiacciante di Donald Trump alle elezioni presidenziali, un uragano sembra aver travolto l’intero Partito Democratico statunitense. Sin dalle prime ore, quando il conteggio dei voti non era finito ma il risultato era ormai evidente, da più parti si sono alzate voci contro la campagna elettorale timida di Kamala Harris, che non ha saputo realmente differenziarsi dal proprio avversario agli occhi della gente comune e, soprattutto, della classe operaia americana, non solo bianca. Infatti, rispetto alle elezioni del 2020 i democratici hanno perso circa dieci milioni di voti, in maggioranza tra i blue collar, che non si sono visti rappresentati da una candidata dalle posizioni fin troppo contraddittorie.

Pramila Jayapal, presidente del Congressional Progressive Caucus (un gruppo di membri progressisti del Democratic Party, di cui rappresentano la sinistra), ha fatto campagna elettorale per il ticket Harris-Walz porta a porta negli Stati in bilico della Rust Belt, la “cintura della ruggine” che riunisce gli Stati a maggioranza operaia come Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Michigan, Wisconsin, dove la deindustrializzazione ha messo in crisi migliaia di famiglie. Proprio Jayapal ha sintetizzato in maniera chiara questo problema quando ha raccontato della propria esperienza: «Ho detto alla mia squadra e a mio marito: non sono sicura che vinceremo. Non sembrava che gli elettori fossero convinti. Non lo sentivano, non credevano che Harris fosse significativamente migliore di Trump».

Anche nel 2016, dopo la sconfitta di Hillary Clinton, molti nel partito avevano posto le stesse domande, ma i vertici moderati dei democratici avevano rassicurato tutti, per primi sé stessi: Trump, in quell’occasione, aveva vinto di stretta misura, e non era riuscito a conquistare la maggioranza del voto popolare. Il candidato repubblicano, così dicevano i democratici, era il campione di una larga minoranza, ma la maggioranza degli statunitensi non lo voleva. Se mai c’è stata un’epoca in cui questo ragionamento è stato valido, oggi non lo è più. Trump ha vinto con circa cinque milioni di voti in più rispetto all’avversaria, conquistando tutti gli stati della Rust Belt e facendo incetta dei voti non solo dei bianchi, ma anche dei latinos, e conquistando anche porzioni rilevanti del voto nero.

Fra le decine di democratici che si sono espressi nei giorni successivi alle elezioni, tutti si sono trovati d’accordo su un punto: il partito è oramai scisso dalla realtà che dovrebbe rappresentare, e i democratici e la popolazione statunitense spesso corrono su binari paralleli. Su come risolvere la questione, però, le opinioni non potrebbero essere più diverse. Da un lato la sinistra del partito batte sul problema della rottura dei legami con la classe operaia: Bernie Sanders, il candidato indipendente del Vermont con una lunga storia di attivismo alle spalle, sfidante di Hillary Clinton alle primarie del 2016 e apertamente socialista, ha sottolineato proprio questo punto, in un intervento di poco successivo alla chiusura dei seggi. «Non dovrebbe essere una grande sorpresa che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe operaia si accorga che la classe operaia ha abbandonato lui», ha dichiarato il senatore, seguito a stretto giro proprio dalla stessa Pramila Jayapal, che ha parlato di una vera e propria rottura insanabile nel partito. «Il Partito Democratico deve essere ricostruito», ha dichiarato Pramila Jayapal. «Siamo diventati un partito di élite, sia che abbiamo abbandonato la classe operaia, sia che loro abbiano abbandonato noi, sia che si tratti di una combinazione di tutte queste cose». Anche Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata socialista di origini portoricane rappresentante del Bronx e del Queens, ha rincarato la dose. Con una serie di storie su Instagram, social sul quale è seguita da oltre otto milioni di persone, AOC ha chiesto ai propri elettori perché avessero scelto lei, come membro del Congresso, e Trump come presidente, due scelte apparentemente inconciliabili. Molti hanno risposto in maniera eloquente: «è molto semplice, Trump e tu avete a cuore la classe operaia», «sento che voi siete entrambi degli outsiders, che non siete parte dell’establishment», «ho sentito come se non avessi scelta dopo l’amministrazione Biden».

Dall’altra parte, sul fronte dei moderati, la tendenza è a non riconoscere la spaccatura fra partito e classe lavoratrice. La stessa Kamala Harris, per tutto il tempo in bilico fra moderazione e progressismo durante la campagna elettorale, nel suo discorso di presa d’atto della sconfitta non è riuscita ad analizzare a fondo le motivazioni di questa debacle. Una Harris un po’ troppo allegra ha detto che è necessario lottare per la libertà «nel modo in cui viviamo le nostre vite trattandoci l’un l’altro con gentilezza e rispetto», e ha esortato i suoi sostenitori a illuminare quello che sembrava un futuro buio con «la luce dell’ottimismo, della fede, della verità e del servizio». Un discorso generico e debole, in cui la candidata non ha menzionato nemmeno una volta le questioni di fondo, e durante il quale uno degli applausi più grandi è arrivato quando ha promesso di «impegnarsi in un trasferimento pacifico del potere». Più duro e diretto, invece, il presidente del Comitato Nazionale Democratico, Jaime Harrison, che ha definito le osservazioni di Sanders «una vera e propria stronzata», affermando che il presidente Joe Biden è «il presidente più a favore dei lavoratori che io abbia mai visto nella mia vita».

Se questo fosse vero, ad ogni modo, non si spiegherebbe la crisi del voto dem fra la classe operaia. Lo stesso Tommy McDonald, democratico della Pennsylvania e noto stratega della campagna del senatore democratico John Fetterman per il 2022, ha detto che una lezione che bisogna imparare da queste elezioni è che i democratici dovrebbero schierare più candidati che siano essi stessi lavoratori. «Un partito basato sulla difesa e sull’identificazione con la classe operaia può correre e vincere ovunque», ha dichiarato. «Un partito basato sulla difesa e sull’identificazione di sottogruppi non può vincere ovunque, e anzi fa peggio con i sottogruppi che giustamente difende». Questa sembra la posizione che le diverse anime della sinistra statunitense vorrebbero portare avanti, e che potrebbe dare adito a cambiamenti importanti nei prossimi mesi, che saranno cruciali per capire quale natura assumerà il partito.

Lo stesso Bernie Sanders prospetta dei cambiamenti per il prossimo futuro. «Le grandi lobby economiche e i consulenti ben pagati che controllano il Partito Democratico trarranno qualche vera lezione da questa campagna disastrosa?» ha domandato il senatore del Vermont in questi giorni. «Probabilmente no. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, quelli di noi che si preoccupano della democrazia dal basso e della giustizia sociale dovranno fare delle discussioni politiche molto serie. Restate sintonizzati». Anche Alexandria Ocasio-Cortez si è espressa sulla stessa linea d’onda: «il nostro progetto principale è quello di unire la classe operaia di questo Paese contro l’agenda fascista, punto e basta», ha detto. «Abbiamo avuto un’enorme battuta d’arresto in queste elezioni, perché i fascisti hanno ottenuto un grande sostegno da parte della classe operaia, cosa che è già successa nella storia. Stiamo per entrare in un periodo politico che avrà conseguenze per il resto della nostra vita. Non possiamo rinunciare a lottare». Un modo per proporre una organizzazione formale della sinistra, magari fuori dal Partito Democratico? Non lo sappiamo.

Quello che è chiaro è che la lotta per la nomina del prossimo presidente del Comitato nazionale democratico sarà di certo una delle prime arene in cui il partito discuterà del suo futuro sotto il governo Trump, e i progressisti sono decisi a dare battaglia per spostare a sinistra il partito, ritornando a una rappresentanza più diretta di tutta classe operaia, indipendentemente dall’etnia. Alcuni hanno proposto come nuovo presidente del Comitato Nazionale del partito il leader del Partito Democratico del Wisconsin Ben Wikler, ex attivista di sinistra, laureato a Harvard e in precedenza membro di alto livello delle organizzazioni Aavaz e Change.org. La stessa Pramila Jayapal ha detto che le «piacerebbe vedere qualcuno come un Ben Wikler» come presidente del comitato. Altri due nomi sono stati fatti da più parti per affidare la presidenza del comitato a un membro progressista del partito: il governatore del New Jersey Phil Murphy, uno dei governatori più a sinistra oggi negli USA, e il capo del Partito Democratico del Minnesota Ken Martin. Resta da vedere se Sanders e Ocasio Cortez, che hanno un peso importante nella sinistra americana – dem e non – decideranno di sostenere una di queste candidature o prenderanno un’altra strada. Di certo c’è che sono ore buie, queste, per i democratici, e che il partito è già spaccato in due correnti le cui posizioni sembrano sempre più inconciliabili. Nelle parole di Bernie Sanders, «mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E hanno ragione». Resta da vedere se, e come, il Partito Democratico riuscirà a incarnare questo cambiamento nel prossimo futuro.

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