Dio, Patria e forze armate: l’insediamento di Donald Trump

Dio, Patria e forze armate: l’insediamento di Donald Trump

Lunedì 20 gennaio alle ore 12.00, orario della costa orientale, Donald Trump si è insediato come quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti d’America. La cerimonia si è svolta al chiuso, in una delle sale degli edifici governativi a Washington, D.C., soprattutto a causa dell’ondata di freddo che ha colpito l’intero Paese. Così, mentre pochi eletti – circa duemila – si accalcavano per entrare al Campidoglio e assistere alla cerimonia, la grande base dei sostenitori di Trump ha colonizzato i bar della capitale e si è messa davanti ai televisori, tutti sintonizzati sull’avvenimento del giorno.

Dentro al Campidoglio, invece, alcuni fra gli uomini più ricchi del mondo hanno sancito con la loro presenza – e con le cospicue donazioni – la copertura economica dell’evento: si tratta dei cosiddetti tecno-capitalisti, quei reduci della Silicon Valley che oggi, in tempi diversi, si sono accodati al nuovo corso della politica statunitense. Il primo e più importante è di certo Elon Musk, patron di Tesla e SpaceX, che da oggi vede intrecciarsi ai suoi enormi interessi economici un potere politico notevole, se si pensa che sarà solo al comando del DOGE, il nuovo Department of Government Efficiency, ora che anche Vivek Ramaswamy si è fatto da parte e, a quanto pare, si dedicherà alla ben più modesta corsa alla carica di governatore nel suo Ohio. Oltre a Musk, che è salito sul palco esibendosi in un gesto sinistramente simile ai saluti romani di memoria nazista, in prima fila si potevano scorgere sia Jeff Bezos, fondatore di Amazon e diretto concorrente di Musk nella corsa privata allo spazio, e Mark Zuckerberg, che ha da poco annunciato un cambio delle politiche di fact-checking di Meta ed è l’ultimo arrivato nella corsa delle Big Tech per dimostrare supporto a Donald Trump. Del resto, non c’è da stupirsi: Bezos e Zuckerberg hanno donato un milione di dollari a testa per l’organizzazione di questa cerimonia di insediamento, ed erano dunque in prima fila a godersi lo spettacolo.

Uno spettacolo che, bisogna dirlo, non si è fatto attendere. Subito dopo il giuramento di rito di J.D. Vance come vicepresidente e di Donald Trump come presidente, quest’ultimo ha tenuto un discorso che è stato, per molti versi, la rappresentazione plastica del cambiamento di passo ai vertici della politica statunitense. «L’età dell’oro per l’America comincia adesso»: così Donald Trump ha aperto il suo discorso, dopo i saluti di rito e i ringraziamenti ad un pubblico in delirio, affermando anche che «siamo all’inizio di una nuova, elettrizzante era di successo nazionale». La ricetta per questo “successo”, ripulita dalla gonfia retorica che ha avviluppato tutto il discorso del tycoon, risulta estremamente chiara: «la nostra sovranità verrà riaffermata, la nostra sicurezza sarà ripristinata, la bilancia della giustizia verrà riequilibrata». Tre frasi lapidarie che hanno valore di programma politico. Per quanto riguarda la necessità di riaffermare la sovranità statunitense, lo strumento attraverso il quale realizzarla è l’apparato militare: Donald Trump ha dichiarato di voler utilizzare l’esercito al confine con il Messico e di voler riacquistare la sovranità sul Canale di Panama – che il presidente Carter aveva ceduto con un trattato al governo del paese centroamericano negli anni ’70 – per sottrarlo ad una presenza cinese forse più supposta che reale. Ma la sovranità da ristabilire è una faccenda anche economica: il tycoon ha dichiarato di voler costringere le potenze straniere a pagare le tasse sulle merci esportate negli Stati Uniti, creando un External Revenue Service (contrapposto all’Internal Revenue Service che oggi è incaricato di raccogliere le tasse pagate dai cittadini statunitensi). Inoltre, Trump ha affermato di voler abbandonare qualunque politica verso la transizione ecologica abbandonando il Green New Deal (in realtà mai davvero attuato dall’amministrazione Biden) per sfruttare invece tutto il petrolio e il gas naturale ancora presenti su suolo statunitense: «drill, baby, drill», ossia «trivella, ragazza, trivella», ha detto un ammiccante Trump alla folla di sostenitori, che con un applauso fragoroso ha sancito il rifiuto di politiche ecologiche volte al contrasto del cambiamento climatico.

Anche la questione della sicurezza è stata trattata da Trump come un problema legato soprattutto all’immigrazione: «innanzitutto, dichiarerò l’emergenza nazionale al confine meridionale» ha affermato il tycoon, precisando che «tutti gli ingressi illegali saranno immediatamente bloccati. E inizieremo il processo di rimpatrio di milioni e milioni di stranieri criminali nei luoghi da cui provengono». Questa postura fortemente securitaria non è nuova, ed è anzi stata uno dei cavalli di battaglia dei repubblicani per tutta la campagna elettorale; tuttavia, durante il suo discorso Trump ha fatto riferimento all’ Alien Enemies Act del 1798, una legge che conferisce poteri speciali al presidente e gli permette di mettere in prigione cittadini stranieri in tempo di guerra. E proprio questo è il punto: tutto il discorso di Donald Trump, e nello specifico i passaggi sul tema dell’immigrazione, è stato quello che gli americani chiamano un wartime speech, un discorso di guerra, che non ha fatto altro che alimentare la sensazione di una sindrome di assedio che terrorizza i dirigenti repubblicani. Dirigenti che, lo ricordiamo qui, controllano oggi tutto il sistema politico statunitense, dalla presidenza al Congresso alla Corte Suprema, senza contrappesi.

Per quanto riguarda la questione della giustizia, il riferimento all’establishment democratico è quasi ovvio. Nel suo discorso, infatti, Donald Trump non ha risparmiato gli attacchi nei confronti dell’amministrazione uscente, utilizzando toni da piena campagna elettorale. «Negli ultimi otto anni, sono stato messo alla prova e sfidato più di qualsiasi altro presidente nei nostri 250 anni di storia» ha dichiarato, forse dimenticando le difficoltà affrontate, fra gli altri, da Franklin Delano Roosevelt o Abraham Lincoln. «Coloro che desiderano fermare la nostra causa hanno cercato di prendere la mia libertà, e addirittura di prendere la mia vita» ha continuato, mettendo sullo stesso piano i vari processi aperti a suo carico con il fallito attentato ai suoi danni, e sottintendendo una responsabilità politica comune a tutti questi atti. Ha poi affermato di voler ridurre l’inflazione che, a suo parere, sarebbe arrivata ai massimi storici sotto l’amministrazione Biden, addossando a quest’ultimo la responsabilità della situazione. Questa affermazione, bisogna sottolinearlo, è semplicemente falsa: se è vero che nel 2022 l’inflazione ha raggiunto il picco più alto degli ultimi quarant’anni, ossia il 9%, è altrettanto vero che nel 1920 l’inflazione negli USA arrivò addirittura al 23.7%.

Infine, altri due elementi sono emersi con forza dal discorso di insediamento di Donald Trump. Il primo è l’attacco frontale alle persone transgender e alla comunità LGBTQ+, senza risparmiare il tema della cosiddetta “cultura woke”, obiettivo privilegiato dei repubblicani durante la campagna elettorale: «abbiamo un sistema educativo che insegna ai nostri figli a vergognarsi di sé stessi» ha infatti dichiarato il tycoon. «D’ora in poi la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti sarà che esistono solo due generi, maschile e femminile». Il secondo, ed anche questo non è una novità, è il costante corteggiamento dei nazionalisti cristiani: nella frase «non dimenticheremo il nostro Paese, non dimenticheremo la nostra Costituzione, e non dimenticheremo il nostro Dio, non possiamo farlo», Trump mette Dio in posizione finale. In questa costruzione retorica, che chiaramente è un climax ascendente, Dio è nella posizione più importante, al di sopra della nazione e della costituzione.

In generale, al netto dei riferimenti al sacro, il discorso è stato tutto, dall’inizio alla fine, pervaso da quella che potremmo definire una mistica suprematista della nazione: Donald Trump ha affermato a più riprese non solo l’unicità degli Stati Uniti d’America, ma anche la loro superiorità e il ruolo di guida delle altre nazioni nel mondo, come se questo fosse un portato naturale e incontrovertibile dell’esistenza stessa degli Stati Uniti. «Gli Stati Uniti torneranno a considerarsi una nazione in crescita, che accresce la propria ricchezza, espande il proprio territorio, costruisce le proprie città, innalza le proprie aspettative e porta la propria bandiera verso nuovi e meravigliosi orizzonti. E perseguiremo il nostro destino manifesto verso le stelle, lanciando astronauti americani per piantare la bandiera a stelle e strisce sul pianeta Marte». Al netto dell’assist al programma SpaceX di Elon Musk, a sorprendere qui è l’utilizzo dell’espressione “destino manifesto”: si tratta del nome di una ideologia estremamente specifica, nata a metà Ottocento, che descriveva l’espansione degli USA come ovvia e inevitabile.  A completare così il quadro di questa ascesa quasi sacralizzata di Trump, i suoi sostenitori – dentro e fuori dal Campidoglio – hanno accolto ogni pausa strategicamente osservata dal tycoon durante il discorso con ripetuti «Amen», applausi e cori di «fight, fight, fight». Ed è stato Trump stesso a garantire la propria divinizzazione: «sono stato salvato da Dio per rendere questa nazione di nuovo grande», ha affermato parlando del tentativo di assassinio subito in Pennsylvania, durante la campagna elettorale.

Alle parole del nuovo presidente ha fatto seguito un fuoco di fila di decreti firmati nelle ore successive. «Oggi firmerò una serie di ordini esecutivi storici. Con queste azioni, inizieremo la completa restaurazione dell’America e la rivoluzione del buon senso» ha dichiarato Trump, e infatti in poche ore gli Stati Uniti sono, nell’ordine, usciti dall’accordo di Parigi sul clima, hanno dichiarato l’emergenza nazionale al confine con il Messico e hanno sospeso il reinsediamento dei rifugiati per almeno quattro mesi. Inoltre, Trump ha avviato le pratiche – che dovranno essere ratificate dal Congresso – per interrompere il riconoscimento della cittadinanza per i figli di immigrati illegali nati su suolo statunitense (ad oggi, chiunque nasca su suolo statunitense ha diritto alla cittadinanza). E se questi sono solo i primi atti della presidenza Trump, la strada verso una politica muscolare, repressiva e di costruzione della supremazia statunitense sembra già tracciata.

 

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