La sera di giovedì 27 giugno – le tre di notte fra il 27 e il 28, ora italiana – si è svolto il primo dibattito televisivo che ha visto contrapposti il democratico Joe Biden, attuale presidente degli USA, e l’ex presidente Donald Trump per il Partito Repubblicano. I due, in realtà, non sarebbero ancora tecnicamente i candidati ufficiali del partito, che saranno decisi durante la convention repubblicana a Milwaukee, a metà luglio, e la convention democratica a Chicago, tra il 19 e il 22 agosto. Tuttavia, vista l’assenza di altri candidati credibili, sembra proprio che la partita di novembre si giocherà tra Biden e Trump.
Le regole del gioco
Ad ospitare il dibattito è stata la CNN, uno dei principali network di informazione degli Stati Uniti. Le regole del gioco erano tanto semplici quanto inflessibili: solo i candidati in sala insieme ai due conduttori della trasmissione, nessuna presenza di pubblico e posizionamento a destra o a sinistra del palco decretato dal caso. Le domande vertono sugli argomenti più diversi, dall’immigrazione alla previdenza sociale, dall’economia alla politica estera: i candidati hanno avuto due minuti a testa per rispondere, un minuto per la replica e uno per una eventuale controreplica. Vietatissimo, ovviamente, qualunque contatto con lo staff e perfino avere appunti predefiniti. Tutto ciò che Biden e Trump hanno avuto a disposizione sono stati una penna e un foglio, per prendere eventualmente appunti durante il dibattito.
Trump domina su un Biden debole e spaesato
Il primo, incontrovertibile dato emerso dal confronto televisivo è stata la cronica e notevole debolezza del presidente uscente: Joe Biden è salito sul palco reggendosi in modo malfermo sulle gambe, è apparso a tratti spaesato ed è incespicato più volte nelle sue stesse parole, costruendo circonvoluzioni inutili attorno a pensieri semplici e faticando a esprimere concetti chiari e precisi nel poco tempo a disposizione. La grande difficoltà di Biden si è notata soprattutto dalla ripetizione di concetti già espressi, dalle numerose esitazioni e dall’utilizzo dello spazio dedicato alla domanda successiva per rispondere alla precedente: è apparso come un uomo affaticato, perennemente in ritardo e incapace di gestire il confronto con l’avversario.
Donald Trump, di contro, è il vero vincitore morale del dibattito. È apparso sicuro di sé, sempre preciso e puntuale nelle risposte alle domande dei giornalisti, capace di glissare sugli elementi che avrebbero potuto metterlo in difficoltà e tutto proteso ad attaccare l’avversario che, in questi quattro anni di amministrazione democratica, sarebbe stato responsabile dell’aumento incontrollato dell’inflazione e dell’apertura dei confini a migliaia di immigrati irregolari. Inoltre, al netto dello stile tipico del tycoon, basato su una forte glorificazione del proprio operato e sulla denigrazione dell’avversario anche attraverso una forte manipolazione della realtà, Donald Trump è apparso anche insolitamente composto e rispettoso delle regole del dibattito, riuscendo a chiudere spesso i propri interventi con battute efficaci. Ad esempio, in risposta ad una affermazione di Biden, Trump avrebbe replicato “non so cosa abbia detto il mio avversario alla fine del suo intervento, e credo non lo sappia nemmeno lui”. In sostanza, Trump è apparso sicuro di sé e in forma, e questo, nella politica americana che è innanzitutto e in gran parte una questione di teatro, di commedia, ha fatto guadagnare al candidato repubblicano molti punti presso l’opinione pubblica.
Alla fine del confronto i giornalisti hanno effettivamente posto i candidati davanti la questione della loro età anagrafica: Trump avrebbe 82 anni alla fine di un ipotetico secondo mandato, ma Biden arriverebbe a quota record di 86 anni compiuti. Ora, Biden ha deciso di rispondere giocando la carta della competenza, affermando che “una volta mi dicevano che ero troppo giovane per fare politica, oggi che sono troppo vecchio, ma ciò che conta è quello che ho fatto e che so fare”. Una risposta che è stata messa in ombra dalla sparata di Donald Trump, che subito dopo ha affermato “io faccio esami e analisi periodici, e sono pubblici, chiunque può verificare il mio stato di salute, che è ottimo: non sono mai stato così in forma, sono anche dimagrito”. Una frase sopra le righe, la cui sostanza sembra però confermata dall’andamento del dibattito, e che non sembra essere applicabile anche a Joe Biden.
Due personalismi, un Paese spaccato a metà
Quello che è andato in onda la sera del 27 giugno è stato innanzitutto il confronto tra due individui. Se una componente di personalismo è abbastanza tipica dei confronti elettorali statunitensi, soprattutto per quanto riguarda le presidenziali, i candidati sono sembrati entrambi fortemente focalizzati sull’esaltazione del proprio lavoro e sulla denigrazione dell’avversario. Una delle frasi più utilizzate da Trump durante il dibattito è stata “sono uno dei presidenti migliori della storia degli Stati Uniti, anzi, il migliore”, di solito accompagnata da un’accusa di qualche tipo rivolta all’avversario. Biden è sembrato, pur nella sua fragilità e nella parziale differenza nei modi – meno aggressivo, più pacato – sulla stessa lunghezza d’onda: più volte a seguito di un intervento di Trump ha ripetuto “non ho mai sentito una tale quantità di falsità”, salvo poi non entrare nel merito delle falsità dette dal candidato repubblicano.
In questo contesto ciò che potrebbe essere passato più in sordina sono le differenze programmatiche fra i due candidati. Se all’apparenza il confronto ha riguardato soprattutto i due individui, in realtà andando più a fondo si possono rilevare alcuni aspetti e alcune posizioni politiche espresse dai candidati che delineano una differenza che va oltre quelle personali, e che sembrano meglio descrivere la spaccatura effettivamente presente oggi all’interno della società statunitense.
La politica estera fra Russia e Hamas
Per quanto riguarda la guerra in Ucraina, Trump ha mantenuto la sostanziale ambiguità a proposito della posizione sulla Russia e su Vladimir Putin, preferendo attaccare l’attuale amministrazione democratica, accusata di finanziare in maniera eccessiva il governo ucraino. Nelle parole di Trump, “ogni volta che Zelensky viene in visita se ne va con 60 miliardi di dollari”. In generale, Trump ha accusato Biden di aver indebolito la posizione degli USA nel mondo, e di aver dunque permesso al governo russo – ma anche ai miliziani di Hamas, in riferimento agli eventi del 7 ottobre scorso – di fare il bello e il cattivo tempo senza essere davvero contrastato dagli Stati Uniti.
Dal canto suo Biden non è sembrato davvero convincente in materia di politica estera. Da un lato ha rivendicato il ruolo degli Stati Uniti come poliziotto del mondo, descrivendo gli USA come un “Paese meraviglioso pronto a intervenire per mantenere l’ordine internazionale”. Dall’altro, ha rappresentato Valdimir Putin come un novello Hitler, pur senza porre il paragone in maniera diretta: ha però affermato che, dopo la caduta dell’Ucraina, Putin sarà interessato ad invadere Ungheria e Polonia e dunque a ingaggiare uno scontro diretto contro la Nato. In altre parole, secondo Biden i russi andrebbero fermati immediatamente in Ucraina o potrebbero dilagare in tutta Europa: suggestioni di cosacchi che abbeverano i cavalli nel Tevere o nella Senna che forse non sono condivise nemmeno da tutti i settori del partito democratico, per non parlare della società civile statunitense od europea.
Economia, politica interna e immigrazione
Una parte consistente del dibattito ha visto come protagonista l’economia. Trump ha accusato Biden di aver provocato l’aumento dell’inflazione e di aver portato gli Stati Uniti al collasso, mentre il candidato democratico si è difeso parlando di un’economia al collasso in epoca Trump che è stata risanata dalla sua amministrazione, anche a costo di vedere alzarsi l’asticella dell’inflazione. Sul tema della previdenza sociale, che in qualche forma vede come utenti ad oggi circa quaranta milioni di statunitensi, Biden si è detto favorevole a un ampliamento, anche aumentando le tasse ai miliardari per trovare i fondi necessari: una proposta cara a Sanders e alla sinistra socialista dei democratici, ma che non ha avuto il risalto che avrebbe meritato durante il dibattito. A proposito di interruzione di gravidanza e diritti civili, poi, Biden ha espresso una visione maggiormente accentratrice a livello di governo federale, mentre Trump ha ribadito la volontà di far decidere di tali questioni ai diversi Stati federati, secondo un’idea di “potere ai governi locali” molto cara alle classi dirigenti conservatrici del sud del Paese.
A tenere banco è stato poi il tema dell’immigrazione. Trump ha accusato Biden di aver aperto le frontiere a migliaia di immigrati ai quali avrebbe dato un posto di lavoro togliendolo ai cittadini americani. Secondo Trump questi immigrati oggi starebbero “in hotel di lusso e sarebbero nelle liste della sanità pubblica, portando al collasso il sistema”. Biden a queste posizioni chiaramente propagandistiche ha risposto con una certa debolezza, descrivendo l’immigrazione come il segreto della solidità dell’economia americana ma anche vantando l’impegno profuso dall’amministrazione democratica nel mantenere una mano dura nella gestione dei confini.
Le prime reazioni
Il dibattito ha innanzitutto rafforzato la posizione di Donald Trump all’interno del partito repubblicano, nel quale sembra per ora non avere rivali davvero in grado di impensierirlo nella corsa verso la presidenza, ma anche agli occhi degli elettori a lui più fedeli. Dopo gli scandali relativi al processo per i fondi irregolarmente versati alla pornoattrice Stormy Daniels, Trump sembra essere riuscito nell’intento di far dimenticare al pubblico i propri guai giudiziari, in quello che è stato un vero e proprio numero da illusionista. Al posto di glissare sul tema, Trump ha parlato dei propri procedimenti giudiziari, descrivendosi come vittima di “giudici e giurati democratici e criminali” che avrebbero istituito processi e pronunciato sentenze al solo scopo di ostacolare la sua rielezione a presidente. Un atteggiamento, quello dell’invocazione della giustizia ad orologeria e dei giudici politicizzati, che non coglie di sorpresa il pubblico italiano, ma che potrebbe essere un ottimo modo per stringere attorno all’ex presidente i ranghi dell’opinione pubblica repubblicana.
L’esito del confronto ha poi provocato un vero e proprio terremoto in casa dei democratici. Molti elettori, ma anche certi settori del partito che erano rimasti sino ad ora almeno in apparenza sordi e ciechi, sembrano essersi resi conto dell’inadeguatezza del candidato presidente. Alcuni esponenti democratici pare che abbiano addirittura ventilato l’ipotesi di sostituire Joe Biden in corsa. Questo sarebbe un evento sostanzialmente senza precedenti nella storia del partito democratico, perché la Convention di agosto – unico organo deputato a eleggere il candidato presidente del partito – potrebbe addirittura identificare un candidato al di fuori delle elezioni primarie disputate fino a questo momento. Paradossalmente, questo cambiamento potrebbe apparire come un segno di debolezza agli occhi degli elettori, ma potrebbe essere anche l’unico modo con cui i democratici potrebbero riuscire a rientrare con un candidato credibile nella corsa verso le elezioni di novembre.
Davide Longo