“Everything will change” è il secondo film del regista Marten Persiel ed è stato presentato in anteprima nazionale al Festival dei Popoli nella sezione “Habitat”.
L’opera in questione è un esperimento che mischia il cinema narrativo, in particolare quello fantascientifico e distopico, al racconto documentaristico con lo scopo di informare il pubblico sul danno inesorabile che il cambiamento climatico sta provocando al pianeta e alla biodiversità presente su di esso.
Il film inizia con una sequenza di notizie tragiche, inventate dal regista tedesco per delineare le trasformazioni che hanno portato la società ad essere quella in cui vivono i protagonisti della storia. I tre personaggi principali, infatti, vivono nel 2050 e spinti dalla curiosità si mettono alla ricerca di notizie sulla natura che è stata dimenticata e non trova spazio in un mondo assoggettato alla tecnologia.
Attraverso l’espediente della ricerca dei tre, il regista mostra immagini naturalistiche impressionanti ed intervista un nutrito gruppo di scienziati che delinea e descrive le conseguenze dell’impatto dell’uomo sulla natura.
Le immagini mostrate e le dichiarazioni degli intervistati non possono far altro che colpire lo spettatore, il quale si sente al contempo carnefice, pensando a sé stesso nel presente, e vittima, empatizzando con i personaggi dell’opera e immaginandosi in quel futuro.
Il film gode di una buona fotografia seppur in alcune parti il processo di post-produzione sia fin troppo evidente e rende l’immagine poco credibile.
Il difetto principale del film, a mio avviso, sta proprio nella commistione di generi: il regista non riesce a fondere in modo convincente i due linguaggi. La sceneggiatura è davvero troppo piatta e abbozzata: l’ambientazione e la descrizione della realtà che vivono i protagonisti è solo vagamente delineata dalle già citate notizie che appaiono all’inizio e i personaggi non sono caratterizzati in nessun modo, se non da un vestiario e un’apparenza estetica di certo non originale. Inoltre, anche il modo con cui gli scienziati si esprimono non è uniforme: a volte parlano al passato, mantenendo la finzione narrativa, altre volte parlano al presente rompendo l’illusione.
È evidente che questo non vuole essere un documentario tradizionale, ma al contempo gli elementi narrativi inseriti non bastano per renderlo un esperimento ben riuscito. Infine, si ha la sensazione di un finale troppo sbrigativo: il film si apre con uno scenario desolante e senza via di scampo e si conclude in un lieto fine tramite l’abusato espediente del viaggio nel tempo. L’opera procede per tutta la sua durata su un binario tragico e a pochi minuti dalla fine vira improvvisamente verso un orizzonte di speranza. Se questo in un primo momento rinfranca lo spettatore, a mente lucida sembra quasi un inserimento a forza. Il regista non riesce a tenere saldamente il timone né della narrazione e il tema centrale passa improvvisamente e ingiustificatamente dalle conseguenze del cambiamento climatico alla speranza di un futuro migliore.
Tuttavia, il film conserva una sua validità, soprattutto didattica, negli interventi degli studiosi e ciò lo rende degno di visione anche solo per acquisire consapevolezza in merito al problema del cambiamento climatico.
Sebastian Angieri