I capi di fast fashion, per definizione, sono fatti per durare poco: per questo inquinano molto. Ma ora la Francia vuole intervenire.
La proposta di legge di Violland e del centrodestra francese
L’iniziativa è partita da Anne-Cécile Violland (Horizons et apparentés, centrodestra), che a fine febbraio aveva presentato una proposta di legge per imporre ai capi della moda usa e getta un sovrapprezzo. Sovrapprezzo che potrà arrivare a quota 10 euro entro il 2030 ma non potrà comunque incidere per più del 50% sul prezzo di cartellino del prodotto.
La proposta si articola in tre articoli: il primo prevede che negli store online accanto ai prezzi, si ricordi alla clientela di riparare e riciclare i capi, ricordandone l’impatto ambientale. Il secondo riguarda la tassa, che si rifà al principio di responsabilità estesa del produttore (il produttore ha la responsabilità sull’intero ciclo di vita del prodotto). Il terzo articolo mette paletti alla pubblicità che spinge all’acquisto di capi fast-fashion. La proposta è stata approvata giovedì scorso dall’Assemblea Nazionale: ora manca solo l’approvazione in Senato.
Si tratta di un tipo di misura che sta diventando molto popolare oltralpe: in Francia, sempre nel mese di febbraio, è stata introdotta una tassa di importo variabile da 50 euro fino a 60.000 euro sulle immatricolazioni di auto inquinanti.
Le iniziative francesi per limitare spreco e inquinamento
In Francia, Violland non è la prima a ipotizzare una simile manovra economica per penalizzare la fast fashion. A metà febbraio, il deputato francese repubblicano della Loira Antoine Vermorel-Marques aveva presentato una proposta di legge che prevedeva una tassa fino a 5 euro su ogni articolo per le aziende che ne avrebbero immessi sul mercato più di 1000 al giorno.
Non si agisce sull’inquinamento da fast fashion solo con le tasse: si vuole agire sullo spreco anche con incentivi. È questo il caso della misura del bonus réparation, lanciata lo scorso ottobre: sconti sulle fatture degli artigiani preposti alla riparazione di indumenti, accessori e calzature. Analoghi sconti erano stati già introdotti per la riparazione di dispositivi tecnologici ed elettrodomestici.
Fast fashion: Shein e le altre
Ora il dito dei francesi è puntato soprattutto contro Shein, grande compagnia tessile cinese che produce 7.200 nuovi capi di abbigliamento al giorno. Shein, dal canto suo, sul proprio sito internet rivendica il fatto di produrre prodotti in quantità limitata giusto per soddisfare la richiesta: intorno ai 100-200 pezzi per ogni articolo. E tenere al di sotto del 3% l’invenduto. Eppure, stando ai dati, il colosso cinese inquinerebbe come 180 centrali a carbone messe assieme.
Sono tante le realtà globali di fast fashion. Oltre al Gruppo Inditex – che aggrega Zara, Zara Home, Bershka, Stradivarius, Pull and Bear, Massimo Dutti, Oysho, Uterqüe, Tempe e Lefties – ci sono moltissime altre realtà. Vanno dalla spagnola Mango, alla svedese H&M o all’irlandese Primark, passando per C&A e molti altri.
Settore tessile: l’impatto ambientale
L’impatto ambientale del settore tessile è imponente. Come ha rilevato il Parlamento Europeo, solo nel 2020, il consumo medio di prodotti tessili nell’Unione Europea ha avuto bisogno: di 400 mq di terreno, 391 chili di materie prime e 9 metri cubi d’acqua. Producendo un’impronta di carbonio pari a 270 chili.
Im Europa, il settore tessile incide per il 10% sulle emissioni di gas. Solo il 20% dei prodotti dismessi raccolti viene trasformato in prodotti di valore inferiore (downcycling) e riutilizzato: il resto viene distrutto.
E la produzione di fibre tessili è in costante crescita a livello globale: dalle 58 tonnellate prodotte nel 2000 si è passati a 108 milioni di tonnellate, 20 anni dopo. La previsione, per il 2030, è di raggiungere quota 145 milioni.
Inoltre, spesso i tessuti degli abiti, anche e soprattutto quelli fast fashion, contengono fibre derivate dalla plastica. Un fattore, questo, da non trascurare visto che questi materiali si degradano sprigionando microplastiche nell’acqua di scarico: si stima che un cestello della lavatrice riempito con capi in poliestere possa produrre fino a 700.000 fibre di microplastica. Microplastica che finisce nei mari e negli oceani, avvelenando l’ambiente e la fauna marina.
Inoltre, si stima che ogni anno finiscano in mare 0,5 milioni di tonnellate di fibre sintetiche, equivalenti al 35% delle microplastiche primarie rilasciate nell’ambiente.
Produrre molti capi consuma troppa acqua
Ma il poliestere non è l’unico problema. Il cotone ha un impatto ugualmente devastante: pare che per produrre una singola maglietta di cotone occorrano ben 2.700 litri di acqua. Quantità che equivale a quella che una persona dovrebbe bere nell’arco di due anni e mezzo.
Dal report del 2020 Interwoven Risks, Untapped Opportunities di CDP (Carbon Disclosure Project) emerge che l’acqua è l’elemento più bistrattato dall’industria della moda in generale e dalla fast fashion in particolare. Sia in termini di spreco che di inquinamento.
Le migliori alternative al cotone risultano essere, ad oggi, le fibre ricavate dalla cellulosa (viscosa, lyocell, modal): di origine naturale sebbene siano fibre artificiali, morbide, traspiranti. È su di loro che investe sul lungo periodo Mango, che si propone di avere il 100% di fibre di cellulosa di origine controllata e tracciabile entro il 2030.
Riciclo? Una pratica ancora troppo limitata
Stando ai dati europei, solo l’1% dei capi usati viene riciclato. Questi gli ultimi dati sul consumo da parte dei cittadini europei e del ciclo di fine utilizzo: 26 kg di prodotti tessili consumati ogni anno, a fronte di 11 kg di prodotti smaltiti, per lo più inceneriti o portati in discarica (nell’87% dei casi).
Per questa ragione molte aziende del tessile, tra cui H&M e Intimissimi, hanno lanciato iniziative (H&M Garment Collecting dal 2013, Intimissimi Goes Green) di raccolta di capi usati allo scopo di riciclarne i tessuti, previa emissione di buoni sconto per l’acquisto di nuovi prodotti.
Il gruppo Inditex sta investendo sul poliestere riciclato. Lo scorso ottobre ha sottoscritto un accordo triennale dal valore di 20 milioni di euro con Ambercycle, azienda statunitense produttrice di cycora, un prodotto ottenuto dal riciclo del poliestere. Verrà prodotto a partire dal 2025 e impiegato nelle collezioni dei brand del gruppo fino al 2028.
Zara è stato il primo marchio Inditex, nel 2019, a presentare una capsule collection – della linea Trafaluc – di capi realizzati in poliestere riciclato.
L’impatto sociale
Molto spesso ci si dimentica che la fast-fashion ha un impatto pesante anche in ambito sociale. Per produrre capi a basso prezzo ci si deve necessariamente avvalere di manodopera sottopagata e sottoposta a incalzanti turni di lavoro: un aspetto del quale spesso non si tiene conto.
Nel 2022 la giornalista Imam Amrani si introdusse di nascosto in due delle oltre 700 fabbriche che lavorano per conto di Shein, scoperchiando un autentico vaso di Pandora. Turni da 17 ore al giorno con un solo giorno libero al mese, una paga da 4 centesimi a capo, condizioni igieniche precarie, un obiettivo di produzione di 500 prodotti al giorno. L’inchiesta andò in onda negli Stati Uniti, su Channel 4.
Pratiche virtuose, tra rivendita tra clienti, swapping e… noleggio
Mentre l’Unione Europea impone la sua Strategia per prodotti tessili sostenibili e circolari (2022), la fast fashion corre ai ripari, lanciando quelle che i commentatori più maliziosi potrebbero definire iniziative di greenwashing. Ad oggi non vi è un singolo grande marchio di fast fashion che non abbia stilato una dichiarazione di impegno per la sostenibilità ambientale e che non si sia schierato formalmente dalla parte della moda circolare, lanciando iniziative ad hoc.
Eccone alcune: la prima riguarda Shein ed è Shein Exchange, un servizio di rivendita dei capi che sarà lanciato a ottobre 2024. Zara Pre-Owned offre i servizi di raccolta usato, rivendita e acquisto online di capi di seconda mano del marchio e riparazione a pagamento. Sul proprio sito, il gruppo Inditex rivendica di avere contenitori per la raccolta di abiti dismessi nei negozi di otto suoi brand; che tutti i rifiuti prodotti vengono riciclati o gestiti in modo sostenibile; di aver riciclato oltre un milione di allarmi di sicurezza e 61,8 milioni di stampelle.
Dopo alcuni scandali, tra cui quello del 2017 sull’incenerimento di capi nuovi, H&M ha deciso di mettere in atto diverse politiche in nome della moda circolare. Tra queste, anche il noleggio di capi della collezione Conscious Exclusive, disponibile in un solo negozio a Stoccolma dal 2019.
Il marchio cinese Tally Wejil etichetta i prodotti più sostenibili con un’apposita targhetta, Tally Cares (sul 25% dei prodotti), e sostiene i produttori di cotone aderendo al programma Better Cotton.
L’azienda giapponese Uniqlo punta sul riciclo di indumenti usati. In particolare, rivendica il fatto di recuperare le piume d’oca dai vecchi piumini per usarle in nuovi prodotti, con l’iniziativa RE.Uniqlo (Recycle. Reuse. Reduce). Inoltre si impegna a distribuire i capi dismessi a sfollati e rifugiati, con l’aiuto delle ONG e in collaborazione con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Eppure, per rendere la moda più sostenibile, bisognerebbe agire alla radice, disincentivando il consumismo sfrenato e a tutti i costi, specialmente se bassi. Invece continuiamo a guardare il dito anziché la luna.
Giulia Bucelli