Per celebrare il venticinquesimo anniversario della sua uscita, a partire dall’undici dicembre, torna in sala Funny Games, l’opera più disturbante, violenta e controversa del celebre regista austriaco Michael Haneke. Il film, uscito originariamente nel 1997, fu presentato in concorso al Festival di Cannes di quello stesso anno e sin da allora è foriero di feroci discussioni in merito alla violenza e alla brutalità delle immagini che lo compongono. È noto, infatti, che alla sua prima proiezione alla kermesse francese, gran parte del pubblico abbandonò la sala prima della fine. Su questo solco si colloca anche il giudizio caustico e senza mezze parole che Jacques Rivette, maestro della Nouvelle Vague, pronunciò in merito al film in un’intervista rilasciata al settimanale Les Inrockuptibles: <<Quelle honte! Et quelle ordure!>>.
La trama del film è tanto semplice quanto sono complesse le implicazioni semantiche legate a ciò che il regista austriaco scegli di mostrare: Georg, Anna e il piccolo Schorschi, giungono nella loro casa delle vacanze intenti a passare un periodo di tranquillità lontani dalla città. Con i bagagli non ancora completamente disfatti, il padre e il figlio si recano sulla riva del lago, su cui la casa affaccia direttamente, per mettere in acqua la loro barchetta; nel frattempo Anna resta in casa a preparare la cena. Improvvisamente, appare alla porta Peter, un ragazzo grassoccio, apparentemente tranquillo e affabile, giunto lì per chiedere in prestito delle uova per conto dei vicini di casa. Poco dopo giunge anche un altro ragazzo, Paul. In una rapida escalation di cattive maniere, i due perdono la loro aura da bravi ragazzi e fanno agitare la padrona di casa che subito intima ai ragazzi di andar via di casa. Nel frattempo, tornano in casa anche Georg e il figlio, e, dopo l’ennesimo invito ad andar via, i due ragazzi finalmente gettano la maschera esplicitando le loro cattive intenzioni.
Il film, in apparenza un horror appartenente al sottogenere denominato home invasion, è in realtà qualcosa di molto più complesso. L’intenzione del cineasta austriaco, infatti, non è quella di mostrare una storia godibile, soddisfacente o quantomeno catartica; l’obiettivo di Haneke è riflettere sulla complicità che lo spettatore ha con la violenza mostrata sugli schermi (una tematica che nel periodo storico attuale, ottiene ancor maggior risalto a causa della continua e infinita esposizione a immagini di guerre, fatti di cronaca nera e disastri da cui i nostri occhi non possono e non riescono a distogliere lo sguardo).
Il regista porta sul banco degli imputati e lo sguardo dello spettatore e la sua innata pulsione scopica. In un certo senso, Funny Games è violento perché lo spettatore medio, soprattutto quello anglo-americano, è violentemente affamato di violenza. In questo senso, non è un caso che nel 2007, dieci anni dopo l’uscita del film, lo stesso regista abbia diretto un remake shot-for-shot, trasportando la vicenda dall’Austria agli Stati Uniti.
Per esplicitare quest’atto di accusa l’autore austriaco si serve di due scelte in particolare: la prima, più evidente, è la frequente rottura della quarta parete e la consapevolezza di Paul di essere in un film. Il personaggio, infatti, rivolge spesso degli sguardi diretti verso la macchina da presa (arrivando anche a fare l’occhiolino) e in alcune scene dialoga direttamente con lo spettatore; inoltre, mentre parla agli altri protagonisti, fa riferimenti legati alla durata e al procedere della narrazione. Questa scelta, apparentemente surreale e superflua, ha un duplice obiettivo: da una parte lo spettatore diventa un complice di quella violenza perpetrata ai danni di innocenti; dall’altra serve ad Haneke per dimostrare che non esiste differenza tra violenza reale e violenza cinematografica. Se è vero, infatti, che la finzione viene dichiarata, non calano i sentimenti forti che essa genera in chi guarda.
La seconda scelta, più sottile ma altrettanto facilmente ravvisabile, è la messa in scena della violenza: Haneke non mostra mai il nudo atto, anzi ogni volta uno dei due antagonisti è in procinto di commettere un atto truculento, la macchina da presa si gira mostrando tutt’altro. Ciò che però il regista mostra, per smuovere lo spettatore e destabilizzarlo, è la conseguenza dell’atto: il dolore, la sofferenza, il tormento. Il che rende di fatto il tutto ancor più destabilizzante, poiché viene esautorata completamente la funzione catartica implicita nella spettacolarizzazione della violenza.
Sebbene il peso degli anni trascorsi e la deriva scopofila della società in merito alla violenza presente in ogni tipo di medium odierno, Funny Games è un film che, a distanza di venticinque anni, riesce ancora a far riflettere.
Sebastian Angieri