America Latina è l’ultimo film scritto e diretto dai fratelli D’Innocenzo. Girato durante la primavera del 2021 e uscito in sala il 17 gennaio 2022, il terzo lungometraggio dei due registi romani tratta della storia di Massimo Sisti, un dentista (interpretato da Elio Germano, qui alla seconda collaborazione con i D’Innocenzo), che vive con la sua famiglia in provincia di Latina.
Fin da subito si evidenziano le prime differenze che questo film ha con i precedenti degli stessi autori. Innanzitutto, il protagonista, a differenza dei personaggi de “La Terra dell’abbastanza” e “Favolacce”, non è un uomo esuberante, scontroso o dominante; Massimo è apparentemente un uomo normale, un padre amorevole e un marito fedele. In questo senso i registi sono bravi a portarci gradualmente all’interno dell’animo del protagonista, facendolo scoprire un po’ per volta.
La seconda differenza la troviamo nell’ambientazione: l’agro pontino e più in particolare Latina.
Il titolo di per sé è un gioco di parole ma è anche un suggerimento: la provincia qui perde la sua dimensione spaziale reale e assurge a provincia metaforica, traslabile in qualunque luogo si voglia. Non a caso la sequenza che accompagna i titoli di testa presenta un paesaggio anonimo e irriconoscibile ascrivibile al territorio italiano esclusivamente per la presenza di un prefabbricato della Coop, tra l’altro in completo stato di decadimento. Le immagini che lo spettatore vede all’inizio dell’opera sembrano quasi tratte da un futuro post-apocalittico o da una società allo sfacelo.
L’elemento che dà il la alla storia è una lampadina fulminata: forse di nuovo un gioco tra gli autori e lo spettatore. La luce, simbolo eterno di guida e chiarezza, si spegne e lascia spazio a un’oscurità fatta di ricerca senza fine di sé stessi, la quale, in una spirale discendente infinita conduce a un baratro sempre più profondo. A questo proposito è eloquente anche la locandina stessa del film che rappresenta questa oscurità in modo visibile attraverso una crepa nella testa del protagonista.
Massimo, dunque, per sostituire tale lampadina scende in cantina a prenderne una nuova ed è lì che la sua esistenza, tranquilla fino a quel momento, subisce un profondo turbamento: una bambina, che assomiglia molto alla moglie e alle due figlie, giace legata e imbavagliata ad un pilastro. L’uomo, atterrito in un primo momento, cerca di slegarla e parlarle, ma spaventato e inebetito dalla reazione della prigioniera, la imbavaglia di nuovo e sale lasciandola lì dov’è. In una delle visite successive il protagonista rompe un tubo dell’acqua e usa la perdita come scusa per chiudere a chiave la porta e impedire al resto della famiglia di scendere in cantina. Giorno e notte il tubo continua a perdere e la cantina, lentamente, si allaga.
Oltre alla bambina, che ovviamente è il fulcro della storia, qui compare per la prima volta un altro elemento fondamentale: l’acqua. Di nuovo avviene un rovesciamento simbolico e, da simbolo di purezza, l’acqua diventa per estensione l’abisso confuso della mente del dentista. Non a caso l’intera cantina sembra essere un elemento estraneo alla casa, quasi a voler rappresentare scenicamente la distinzione netta tra l’abisso della mente e il quotidiano, inteso come norme e abitudini di vita, del protagonista.
Da quella terribile scoperta in poi, il velo di bugie che caratterizza la vita di Massimo si squarcia: lo spettatore viene così a conoscenza della vera essenza del protagonista. L’alcolismo malcelato, i disturbi psicologici e un rapporto burrascoso col padre, sono solo i problemi più evidenti. Per scoprire di più riguardo la bambina che è imprigionata nella sua cantina, il protagonista è costretto, suo malgrado, a scoprire di più riguardo sé stesso e a poco a poco tali scoperte arriveranno quasi a distruggerlo.
La regia del film è impeccabile e certifica il percorso di continua crescita che i registi romani hanno mostrato sin dall’inizio. Uno degli elementi ricorrenti e certamente il più significativo che caratterizza il film è l’immagine mediata. Infatti, per rappresentare la frammentarietà e la condizione particolare nel quale il protagonista vive, i D’Innocenzo scelgono di lavorare sull’immagine di tale personaggio e sul modo in cui essa viene mostrata al pubblico piuttosto che sulle sue parole o sulle sue stesse ammissioni. La tensione viene spesso data dal silenzio in un processo artistico che sembra seguire la linea di pensiero del minimalismo (che caratterizza, oltre alla rappresentazione del protagonista, l’opera intera).
Per tutto il film sono frequenti delle inquadrature in cui l’immagine del protagonista, e in particolar modo il volto, ci appare mediata da qualcos’altro. A volte c’è una barriera, come ad esempio può essere il vetro di una finestra, tra il personaggio e la macchina da presa; più spesso invece, estremizzando tale discorso artistico, i registi scelgono di inquadrare il riflesso del protagonista piuttosto che il protagonista stesso. Questo espediente seppur semplice non risulta mai semplicistico, anzi contribuisce sin da subito ad instillare una sensazione di sconforto nello spettatore.
Inoltre, va certamente notata la grande prova attoriale di Elio Germano. L’interprete romano caratterizza e mette in scena alla perfezione mediante una recitazione fatta di piccoli gesti, di pause e di espressioni uniche un personaggio complesso come di fatto è Massimo.
Dal punto di vista tecnico la fotografia, curata da Paolo Carnera (che torna per la terza volta a collaborare con i D’Innocenzo), è contigua a quella dei precedenti film dei registi romani. Tuttavia, in questo film si affina e si rende parte integrante del racconto soprattutto attraverso l’uso funzionale della luce e l’avvicendamento tra primissimi piani e campi larghi, alternati tra loro in base alle sensazioni del protagonista. Ogni scelta è assoggettata al racconto e non scade mai nel manierismo.
La palette cromatica, tranne in rare eccezioni significative tra cui i vestiti bianchi candidi (un chiaro riferimento al film “Il giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola) della moglie e delle due figlie del protagonista o le pareti rosse, è cupa, scura e opprimente quasi a voler suggerire sin da subito i binari su cui la storia proseguirà. I movimenti di macchina mai invasivi, sono ridotti al minimo e i momenti concitati vengono resi alla perfezione grazie ad un sapiente uso del montaggio curato da Walter Fasano (montatore tra l’altro di “Chiamami col tuo nome” e “Suspiria” di L. Guadagnino). In determinati momenti tramite la giustapposizione di inquadrature dal respiro diverso e a un sonoro perfetto, il film porta lo spettatore a provare le stesse sensazioni provate dal protagonista.
Per concludere, la colonna sonora curata dai Verdena, si inserisce perfettamente nei silenzi della storia raccontata. La musica, mai preponderante riesce tuttavia a prendersi il suo spazio e completa spesso l’immagine commentandola in modo sempre preciso.
Sebastian Angieri