Il futuro arriva dalle montagne: viaggio nell’Italia interna

Il futuro arriva dalle montagne: viaggio nell’Italia interna

Paese

Ad Agnone, comune molisano di cinquemila abitanti in provincia di Isernia al confine con l’Abruzzo e punto di riferimento per i più piccoli paesi limitrofi dell’Alto Molise, i bambini e le bambine non avranno più la possibilità di curarsi, da quando a fine agosto l’ultimo pediatra di libera scelta presente sul territorio è andato in pensione. Né possono contare sulle cure ospedaliere, visto che i reparti dell’ospedale Caracciolo della città, unico presidio in un raggio di trenta chilometri e punto di riferimento del territorio dell’Alto Molise e di parte dell’Alto Vastese e dell’Alto Sangro, sono stati progressivamente chiusi a partire dal 2008. Del centro ospedaliero resta solo il pronto soccorso.

Così quando a fine luglio il ministro degli Affari Esteri Fitto ha dichiarato che i fondi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per il potenziamento dei servizi delle aree interne sarebbero stati utilizzati per altri scopi, al danno si è aggiunta la beffa per la popolazione di un territorio che non gode pienamente dei diritto alla salute e all’istruzione, visto che le scuole dell’infanzia, la primaria e le secondarie vengono chiuse a causa dei pochi iscritti.

E neanche usufruisce del diritto alla mobilità: già pesantemente colpito dal pesante taglio delle corse che collegano il territorio ai centri come Roma, Isernia e Campobasso, sull’Alto Molise pesa anche la chiusura nel 2018 del Viadotto Sente. Di competenza dell’ANAS, come il Ponte Morandi di Genova, all’indomani del crollo genovese il ponte molisano-abruzzese venne interdetto al traffico perché considerato non sicuro. Con i suoi 185 metri di altezza che lo annoverano tra i ponti più alti d’Italia, completato nel 1977, il viadotto collega infatti il comune molisano di Belmonte del Sannio (a due passi da Agnone) con l’abruzzese Castiglione Messer Marino (CH). Viene da chiedersi se Fitto e Salvini si sono parlati, visto che il Ministro delle Infrastrutture solo lo scorso 30 maggio, all’indomani delle elezioni regionali in Molise, si era recato proprio a Belmonte del Sannio (IS) a illustrare la prossima apertura del viadotto nel 2024, per la cui messa in sicurezza servirebbero 15.8 milioni di euro.

Senza strade, scuole e ospedali: nel 2012, per territori come quello dell’Alto Molise è stata così ideata la Strategia nazionale aree interne (Snai) da parte di Fabrizio Barca, ministro per il Sud e la Coesione Territoriale del governo Monti, prima politica pubblica place-based in cui le decisioni vengono prese cioè dal territorio, coinvolgendo le amministrazioni, le associazioni locali e la cittadinanza. Secondo la Strategia, con aree interne si intendono «territori fragili, distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi […] la cui esigenza primaria è quella di potervi ancora risiedere, oppure tornare». Scopo della Strategia è fermare quella che viene definita come «emorragia demografica». Nominando tuttavia il sintomo, invece della causa.

Non chiamateli borghi

I paesi come Agnone non sono un’eccezione: le aree interne coprono infatti, dal nord alle isole maggiori, più della metà del territorio nazionale, e sono abitate da circa 13 milioni di persone che fanno quotidianamente i conti con l’assenza dei servizi essenziali o con quelli che la Costituzione definisce, con la sua terminologia franca e concisa, diritti.

Lo Stato sembra tuttavia esser disposto a concedere finanziamenti solo ai cosiddetti «borghi»,  come dimostra l’omonimo bando indetto dal Ministero della Cultura a fine 2021, ovvero l’accesso nell’ambito del PNRR a ben un miliardo di euro per quei paesi che sappiano rendersi attrattivi per il turismo e per chi fugge dalla metropoli. Senza, però, destinare un centesimo a sanità, istruzione e infrastrutture.

Secondo il Dizionario Treccani con il termine “borgo” si intende una estensione della città. Eppure, come spiegano gli autori del volume Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi (Donzelli, 2022) a cura di Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, la parola è inadatta perché riduce il paese a un luogo arroccato e isolato dove fuggire dal caos metropolitano, cancellando la complessità del territorio in cui è situato. Il termine ci racconta invece molto dell’idealizzazione del paese operata dagli abitanti di un modello urbano in crisi e in fuga dalle sue stesse contraddizioni, riducendo così il paese a meta turistica da consumare tra soggiorni ed experience.

È il caso di Grottole, in Basilicata, comune di trecento abitanti. A pochi chilometri da Matera, nel 2018 Silvio Donadio (ex Assessore alla cultura del paese), Valentina La Terza, Andrea Paoletti e Viviana Bassan hanno avviato, insieme alla piattaforma statunitense di affitti brevi Airbnb, il progetto Wonder Grottole, con cui hanno destinato le seicento case vuote situate nel centro storico al turismo rurale di breve, medio e lungo periodo (la dice lunga il fatto che il costo di un mese di affitto di una camera sia di 950 euro, pari a quello di una stanza nel centro di Milano). Un investimento che ha fatto la fortuna di Airbnb più che della comunità del paese, se si pensa a quello che sarebbe accaduto appena due anni più tardi: con la pandemia, gli spazi vuoti dei paesi assumevano un altro significato agli occhi degli abitanti delle città costretti a vivere in pochi metri quadrati.

Secondo Sarah Gainsforth, scrittrice, giornalista e ricercatrice indipendente «se esistono dei quartieri, delle aree, degli edifici sui quali il mercato vuole mettere le mani, si dice debbano essere valorizzati. Spesso li si presenta come vuoti, dimenticati, abbandonati, degradati […] e se lo sono è grazie a precise strategie di abbandono messe in campo dalle amministrazioni che preparano il terreno per il ritorno del capitale». Nel suo Oltre il turismo (Eris Edizioni, 2020), Gainsforth svela come il turismo low cost sia un fenomeno che, negli ultimi anni, è radicalmente cambiato, producendo in realtà più costi che benefici. Considerato a torto come il “petrolio d’Italia”, la studiosa non solo spiega che il turismo non è la soluzione a tutti i mali, ma illustra anche i pesanti costi sociali, ambientali ed economici, come dimostra ad esempio il turismo di massa nella Val d’Orcia, il cui paesaggio è stato stravolto per l’intrattenimento turistico con pesanti conseguenze sul territorio.

Pensare allora di contrastare l’abbandono delle aree interne guardando alle richieste della città è una soluzione inefficace. Tanto più che l’emorragia demografica individuata dalla Snai non è causata dall’assenza di offerta di lavoro, visto che come spiega di nuovo Filippo Barbera in un’intervista, la maggior parte dei paesi delle aree interne dista al massimo un’ora di macchina da un centro cittadino o industriale. Si tratta piuttosto di una emigrazione obbligata verso i diritti alla salute e all’istruzione, l’assenza dei quali ha minato la vita di intere comunità e cui non vengono dedicate le risorse necessarie.

Ne L’Italia Vuota. Viaggio nelle aree interne (Donzelli, 2023) Filippo Tantillo, ricercatore e film maker, spiega proprio come negli ultimi trent’anni si sia concentrata la ricchezza in poche mani e in pochi centri, mentre con la crisi del 2008 e le conseguenti politiche di austerità si sia verificato «un crollo della vivibilità di questi territori [che] hanno innescato una crisi demografica come non si vedeva da decenni». E così scuole e ospedali sono stati chiusi insieme a negozi e uffici, mentre il valore degli immobili è crollato e le persone hanno ripreso a scendere a valle verso città e metropoli dove, però, le disuguaglianze si accentuano. E con una conseguenza di non poco conto, sia sul piano materiale che su quello psicologico: le comunità si sono sfilacciate, diventando più fragili di fronte agli eventi estremi, dai terremoti alle pandemie. Così le aree interne si sono trasformate in luoghi abbandonati dalle politiche nazionali. Quasi come se il paese che non si fa borgo meritasse di esser dimenticato.

Ritornanti

Eppure non solo la visione urbanocentrica del paese-borgo è distorta, ma nel paese spesso si combattono lotte cruciali di carattere nazionale. Come racconta Savino Monterisi, 34 anni, docente alle scuole superiori e autore di Infinito restare (Radici, 2022) e Cronache della restanza (Riccardo Condò Editore, 2020). Nel maggio 2015 con un gruppo di amici Monterisi organizza un pullman da Sulmona, il paese in provincia dell’Aquila dove è cresciuto, alla volta di Lanciano (CH) dove si teneva una manifestazione contro il progetto petrolifero “Ombrina Mare” proposto dalla società inglese Rockhopper, ex Medoilgas, che prevede la trivellazione di sei pozzi di petrolio a sette chilometri dalle spiagge di San Vito Chietino. Il gruppo si rende presto conto però che anche sul territorio di Sulmona si gioca una partita importante contro cui già diverse associazioni ambientaliste combattono, ovvero quella contro la centrale e il gasdotto SNAM, un impianto lungo 430 chilometri che da Sulmona dovrebbe snodarsi fino a Minerbio, in provincia di Bologna, attraversando sei regioni altamente sismiche e già colpite dai terremoti del 2009, 2016 e 2017. «Da Roma ho scelto così di tornare a Sulmona», spiega Monterisi «Insieme ad alcuni amici e amiche abbiamo fondato il collettivo Altrementi Valle Peligna con l’esigenza di fare qualcosa per un posto che sentivo casa. Volevo sentirmi parte di una comunità politica e fare politica per un territorio che sentivo mio».

Anche la decisione di tornare e restare si rivela allora una scelta dai risvolti profondamente politici in quanto atto politico di cura del territorio. Come racconta efficacemente Monterisi, che respinge però ogni retorica: «Chi decide di restare non dovrebbe farlo passando per un eroe che vive una vita di stenti. Più che parlare di riabitare i paesi, bisognerebbe dare la possibilità di abitarli a chi sceglie di farlo. Oggi invece è ancora troppo spesso una questione di privilegio». Chi ha i mezzi e gli strumenti per farlo e chi può in virtù di questi sopperire ai servizi che mancano.

Lo scrittore delinea con precisione il profilo di chi decide di tornare: «Molto spesso (ma non sempre) si tratta di persone molto scolarizzate, che hanno visto il mondo e hanno una mentalità aperta e uno sguardo ampio su ciò che li circonda. Tornano con un piano, come aprire un’azienda agricola, fare la guida, riprendersi l’attività di famiglia. Il progetto di chi torna potrebbe rappresentare un modo nuovo, attivo, di stare nel paese attraverso la cura del luogo». Chi sceglie il paese, allora, ha il privilegio di poterlo fare, ma rappresenta un elemento di apertura verso il mondo per il luogo: «C’è in questo momento un flusso molto qualitativo del ritorno».

Coloro che ritornano, insomma, non lo fanno con quell’atteggiamento di apatica rassegnazione con cui si pensa agli abitanti dei piccoli e piccolissimi centri. In questo senso, è esemplare la storia di Adriano Statello, ragusano di 36 anni e della sua compagna Francesca Colella, teatina di 34. Dopo aver studiato Urbanistica a Empoli e aver girato l’Italia e l’Europa, Adriano incontra Francesca in Greenpeace, dove entrambi sono attivisti. Da Roma, scelgono di tornare a vivere nel paese dove lei è nata e cresciuta, Torrebruna, in provincia di Chieti, 697 abitanti, 845 metri di altitudine. Qui nel 2015 aprono un panificio, attività che nel piccolo centro mancava. Dopo quattro anni, però, Francesca sviluppa un’allergia alla farina che le rende impossibile continuare a lavorare lì. «Il forno è un’impresa dove devono lavorare almeno quattro persone» spiega Adriano «Eppure non sono previsti aiuti statali finalizzati all’assunzione per chi decide di aprire un’attività essenziale in un’area interna. Quando Francesca si è ammalata non abbiamo potuto permetterci di assumere nessuno, così nel 2019 abbiamo deciso di chiudere».

Ma Adriano e Francesca non se ne vanno. «Siamo rimasti perché qui ci sono una vivibilità e una libertà che non esistono in una città come Roma dove entrambi abbiamo vissuto». Né nei paesi della ricca Brianza, dove hanno provato a trasferirsi: «Abbiamo provato disagio rispetto a quello stile di vita. Inoltre, l’offerta di lavoro non era più remunerativa rispetto a quello che abbiamo trovato a pochi chilometri da qui». Parole che svelano l’altra verità dell’immigrazione da sud a nord. «Deve cambiare la visione secondo cui in città e al nord ci sono tutti i lavori del mondo e che puoi fare quello che vuoi. A quali compromessi devi scendere per quella libertà?».

Oggi Francesca lavora come operatrice in un centro di accoglienza per minori in un paese a otto chilometri da Torrebruna, mentre Adriano è addetto al controllo qualità di prefabbricati a San Salvo (CH), a trentacinque minuti di pullman da Torrebruna. Statello è tra le tante persone che scendono ogni giorno dai comuni di montagna verso la costa industrializzata, percorrendo un tragitto simile, se non inferiore, a quello che fa chi vive in città per andare al lavoro.

Il sentore che si ha parlando con Savino, Adriano e Francesca è che, paradossalmente, nei paesi sia possibile fare qualcosa che nelle metropoli e nei centri urbani sembra oramai impensabile, ovvero esercitare quella che dalle scienze sociali viene chiamata agency. La capacità di far accadere delle cose, cioè, intervenendo sulla realtà e così modificandola, proprio andando a riempire quel vuoto delle aree interne che, per chi lo vede, può rivelarsi uno spazio da riempire. Al netto dei servizi (o meglio, diritti) che non ci sono e che però, proprio per questo, sembrano creare uno spazio per una radicale messa in discussione del modo in cui oggi vengono offerti a chi abita nei centri urbani e industrializzati.

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