Il 22 giugno è uscito nelle sale cinematografiche “Elvis”, il biopic incentrato sulla vita del re del rock. Il film, che vede il ritorno di Baz Luhrmann nelle sale dopo un’assenza di quasi dieci anni (“Il Grande Gatsby”, suo ultimo film, uscì nel 2013), ha per protagonisti Austin Butler (alla sua prima interpretazione importante), nei panni di Elvis Presley, e Tom Hanks che interpreta il suo manager, il colonnello Tom Parker. Il regista australiano sceglie proprio quest’ultimo personaggio per narrare l’epopea del cantante nativo di Memphis; l’opera infatti è messa in scena come un vortice con frequenti salti temporali, soprattutto nella prima metà del film e la voce del colonnello è il filo che unisce tutto e in un certo senso cerca di spiegare l’ascesa e la caduta di Elvis.
Tuttavia, questo espediente narrativo, dà anche vita a quello che, a mio parere, costituisce il problema principale del film: la mancanza di una rappresentazione chiara e funzionale dell’interiorità di Elvis. Nel film, il cantante viene raffigurato sin da subito come un predestinato ma al tempo stesso viene presentato come una persona tormentata. Di conseguenza non si attua quel processo empatico che lega lo spettatore al personaggio: il film non mostra un percorso di crescita di questa dimensione interiore, anzi, a volte sembra addirittura metterla da parte per diverse sequenze per poi riprenderla nel momento in cui torna funzionale per i toni del racconto. Elvis inizia come un personaggio tormentato e finisce allo stesso modo e, nonostante ciò, quel disagio non viene mai descritto espressamente. Si avverte quasi una sensazione di piattezza. In aggiunta a ciò, il fatto che c’è una voce narrante che non è quella del cantante è un ulteriore scoglio per comprendere il personaggio. Allo stesso modo, anche il personaggio del Colonnello risulta ambiguo agli occhi dello spettatore. Egli è senza dubbio un manipolatore senza scrupoli, ma a volte sembra esserci di più. Di nuovo come per il personaggio di Elvis si avverte una sensazione di piattezza e, in questo caso, anche di incompletezza.
Una coppia di protagonisti che non riesce a convincere lo spettatore per via della pluralità delle prospettive e della mancanza di un punto di arrivo unitario.
Dal punto di vista registico, in questo film Luhrmann mantiene e anzi porta all’esasperazione gli stilemi che lo hanno da sempre contraddistinto. I primi venti minuti del film sono emblematici sotto questo punto di vista: un montaggio serratissimo con inquadrature che a volte raggiungono a stento il secondo di durata. I colori sgargianti, l’aura patinata e la particolare messa in scena danno allo spettatore la sensazione, non necessariamente piacevole, di essere su una montagna russa fatta di soli giri della morte.
La fotografia, curata da Mandy Walker, è ben fatta e riesce a tenere il passo con l’esuberanza dell’autore. Il montaggio, come già detto, serrato e velocissimo sarà sicuramente motivo di divisione tra estimatori e detrattori, ma al di là del gusto, è evidente che il ritmo lascia spesso spazio alla maniera rallentando eccessivamente un film già abbastanza lungo. Degni di nota sono la scenografia e i costumi che, come in ogni film di Luhrmann, hanno un gran peso sulla riuscita finale dell’opera.
Dal lato recitativo ci sono diversi temi da evidenziare: nella sua interpretazione del re de rock Austin Butler ha lasciato intravedere sprazzi di talento ma purtroppo per la maggior parte della pellicola la sua interpretazione sembra quasi caricaturale, una somma tra le imitazioni portate all’eccesso di James Dean da una parte e di Elvis stesso dall’altra. Al contrario, invece, nonostante un trucco eccessivo, Tom Hanks mette in scena una buona rappresentazione del personaggio del Colonnello. Per quanto riguarda i comprimari c’è poco da dire, i due personaggi principali fagocitano la scena dal primo all’ultimo minuto lasciando poco spazio agli altri interpreti. Merita un approfondimento particolare anche la colonna sonora, la quale ovviamente costituisce uno dei nuclei principali del film. In primo luogo, va elogiata l’abilità canora di Austin Butler (molte delle canzoni, infatti, sono cantate proprio da lui) che riesce a non sfigurare affatto e anzi si comporta egregiamente.
Anche la scelta delle canzoni è stata curata con grande perizia; nessuna canzone risulta fuori luogo, al contrario, i brani sono sempre funzionali al racconto scenico. Il punto di rottura in questo caso è di nuovo rappresentato da uno degli elementi caratteristici dei film di Luhrmann: la commistione di generi musicali, anche totalmente distanti dall’epoca rappresentata (come fu ad esempio per “Moulin Rouge” o “Il Grande Gatsby”). Tale commistione in un film che mette in scena la vita del re del rock sembra piuttosto fuori luogo ma, conoscendo il regista australiano, era una scelta facilmente prevedibile. Per concludere, il film è destinato a dividere il pubblico ed è, ovviamente, figlio della visione del regista che ha basato e basa tutt’ora la sua intera carriera su degli elementi di stile ricorrenti e che tornano anche qui; tuttavia, questa visione estremamente personale e “autoriale” si allontana dai classici canoni del biopic. Quest’aspetto, che non rappresenta di per sé un male, assume una connotazione negativa nel momento in cui Luhrmann sacrifica l’essenza di un personaggio complesso come Elvis per mettere in scena una figura esclusivamente basata sull’estetica e su una percezione superficiale. Il lusso e lo sfarzo di una messa in scena estremamente pomposa tuttavia non riescono a non farci notare l’assenza di un’anima nella narrazione.
Sebastian Angieri