Il 26 ottobre, il segretario generale Onu António Guterres ha comunicato la nascita di un organo consultivo sull’intelligenza artificiale (Hlab). Formato da 39 esperte ed esperti da tutto il mondo, il suo obiettivo è dar luogo a una governance dell’intelligenza artificiale globale e inclusiva – in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) –, al fine di contrastare la concentrazione nelle mani di pochi privati e Stati i benefici derivanti dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale (IA). E scongiurare la possibilità che i Paesi in via di sviluppo (Pvs) siano “lasciati indietro” dalla quarta rivoluzione industriale. Tale scopo è perseguito attraverso l’analisi dei rischi e delle opportunità dell’IA, come riportato in Governing AI for Humanity: una relazione intermedia pubblicata a dicembre dove si evidenzia come l’IA possa contribuire a facilitare l’accesso alla conoscenza e a realizzare nuove scoperte scientifiche. Lo sforzo dell’Onu consiste nel rendere il progresso scientifico coadiuvato dall’intelligenza artificiale capace di perseguire il bene comune globale.
Fino al 31 marzo, l’organo consultivo accoglierà feedback di persone e organizzazioni sulla qualità del lavoro svolto sino ad ora e proposte da implementare eventualmente nel rapporto definitivo, che sarà pubblicato il prossimo agosto. Le raccomandazioni che emergeranno, verranno sottoposte all’approvazione dei capi di Stato e di governo. Confluiranno nel Global Digital Compact (GDC), il patto proposto dal segretario generale Onu nel 2021 che mira a “rafforzare la cooperazione digitale, colmare il divario digitale e garantire un futuro digitale inclusivo, aperto, sicuro e protetto per tutti”. Sarà sottoscritto durante il Vertice sul futuro, che si riunirà a settembre.
IL RISCHIO DELLA CRESCITA DI DISUGUAGLIANZA
Tuttavia, le evidenze quantitative animano non pochi dubbi rispetto all’effettivo perseguimento di uno sviluppo tecnologico inclusivo e sostenibile. Già nel 2021, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) constatava un “drammatico” aumento degli investimenti globali da parte di venture capitalist (VC) – investitori istituzionali che forniscono capitali di rischio a start-up con alto potenziale di crescita (high growth enterprises, HGEs), ma anche di fallimento – in favore di imprese private operanti nel settore dell’IA. Sulla base dei dati raccolti da Preqin, società privata di analisi dei mercati dei capitali con sede a Londra, si rilevava come il valore annuo globale di investimenti fosse passato da meno di 3 miliardi di dollari nel 2012 a quasi 75 miliardi di dollari nel 2020, registrando oltre 20mila transazioni a beneficio di 8.300 imprese nell’IA in tutto il mondo. Nel 2020, le start-up con sede negli Usa e in Cina hanno ricevuto oltre l’80% degli investimenti, seguite da quelle in Unione Europea (4%), Regno Unito e Israele (3%).
La tendenza che si starebbe delineando è quella di un accentramento delle conoscenze e competenze sull’intelligenza artificiale nelle economie più avanzate ed emergenti. La Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad) a tal proposito ha diffuso Technology and Innovation Report 2023, un lavoro che esamina 17 “tecnologie di frontiera” – come l’intelligenza artificiale, l’idrogeno verde, i biocarburanti – e che sottolinea come tali settori possano fare da volano per i paesi del “Sud del mondo” nel fortificare e diversificare le proprie economie.
Ciò nonostante, si mette in luce l’eventualità che le disuguaglianze economiche tra Paesi del “Nord e Sud globale” possano inasprirsi. L’Unctad rileva che Stati Uniti e Cina dominano il panorama della conoscenza, detenendo una quota pari al 3% delle pubblicazioni globali e pari a quasi il 70% dei brevetti relativi all’intelligenza artificiale. Inoltre, nel primo operano i colossi tech Google, Apple, Facebook, Microsoft. Nel secondo, Alibaba, Tencent, Baidu e Huawei.
BENEFICIARE DEL PROGRESSO SCIENTIFICO E TECNOLOGICO
Secondo l’Unctad, il rischio che pone un tale stato di cose è l’emergere della “schiavitù della conoscenza”, uno scenario che vedrebbe fortemente limitato l’accesso alla conoscenza ai Paesi in via di sviluppo a fronte della sua concentrazione (e monopolizzazione) nelle mani di pochi. Una tendenza che Michael W. Wright, amministratore delegato di Intercepting Horizons, LLCC, definisce in un articolo per la testata online Inkstick come “una nuova forma di feudalesimo digitale”.
Ciò si ripercuote anche sul diritto a beneficiare del progresso scientifico, altresì definito “diritto alla scienza”. Per fornire qualche riferimento, lo troviamo ai sensi dell’articolo 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948); dell’articolo 15 del Patto sui diritti economici, sociali e culturali (1966); nella Dichiarazione di Venezia sul diritto a godere dei benefici del progresso scientifico e le sue applicazioni (2009); nel Rapporto della relatrice speciale Farida Shaheed nel campo dei diritti culturali (2012).
La recente Raccomandazione dell’Unesco sulla scienza aperta, adottata nel 2021, è il primo strumento che definisce gli standard internazionali sulla scienza aperta, riconoscendo in particolare la scienza come “bene pubblico globale che appartiene a tutta l’umanità”. Pur non essendo giuridicamente vincolante, cerca di incoraggiare gli Stati a investire nella scienza e li invita a cooperare tra loro per ridurre il divario tecnologico e nella conoscenza.
Se analizziamo il progresso scientifico dal punto di vista dell’accesso alla rete Internet e quindi a tutte le opportunità che questa offre – in termini di educazione, informazione, formazione –, scopriamo che la distanza tra il “Nord e il Sud” del mondo è lampante. Secondo i dati raccolti dall’agenzia Onu International Telecommunication Union (ITU), in Europa, nella Comunità degli Stati indipendenti e nelle Americhe circa il 90% della popolazione ha accesso a Internet, mentre nei Paesi MENA, in Asia e nel Pacifico si stima che circa due terzi della popolazione gode dell’accesso alla rete. In Africa subsahariana, appena il 37% della popolazione è online. Dal 2019, il 5G è riuscito a raggiungere quasi il 40% della popolazione mondiale, di cui l’89% è rappresentato da persone nei Paesi ad alto reddito pro capite, mentre risulta quasi assente nei Paesi a basso reddito pro capite, laddove prevale il servizio 3G – non abbastanza potente per accedere a piattaforme di e-learning, per esempio – e il 4G, usufruito solo dal 39% della popolazione nei Low income countries (Lics). Un altro dato che intensifica il digital divide è quello relativo ai costi della connettività: se negli High income countries (Hics) il prezzo medio di un abbonamento entry-level alla banda larga mobile è pari allo 0,4% del reddito, nei Lics corrisponde all’8,6%. Una quota superiore di ben 22 volte.
Bisogna considerare, però, che per limitare il divario digitale non basterebbe agire solo sull’accesso a Internet, sulla larghezza di banda e sui costi degli abbonamenti. Ma sarebbe necessario dapprima constatare lo stato di accesso all’elettricità, la presenza di infrastrutture adeguate, un sistema di istruzione e alfabetizzazione digitale che renda le persone consapevoli nel loro utilizzo della tecnologia.
PREVISIONI E PROPOSTE DELLO STAFF DELL’FMI
A prescindere dallo scenario che si voglia delineare, secondo lo staff del Fondo monetario internazionale (Fmi) molto probabilmente l’affermazione dell’intelligenza artificiale determinerà un aumento della disuguaglianza a livello globale. Per tale ragione, viene proposta l’istituzione di reti di sicurezza sociale e programmi volti a riqualificare i lavoratori, al fine di impattare al meglio i cambiamenti che investiranno tutte le società. Ha inoltre elaborato un indice – l’AI Preparedness Index – che misura il livello di preparazione di 125 Paesi esaminati ad accogliere l’intelligenza artificiale in diversi settori, e orienta le economie nella scelta delle politiche da mettere in campo. Nello specifico, prevede che: quelle avanzate, creino dei robusti quadri normativi e investano nell’innovazione e integrazione dell’IA; quelle emergenti e in via di sviluppo, impieghino le proprie risorse nella costruzione di infrastrutture digitali e nella formazione digitale delle lavoratrici e dei lavoratori.
Nadia Addezio