Da Teheran al mondo, il bene comune passa per il riconoscimento dei diritti delle donne
Regimi che con mezzi coercitivi impediscono azioni che tendono a mutare un assetto che si vuole mantenere, spesso si impegnano a nutrire un tessuto sociale fatto di disuguaglianza e prevaricazione, in cui non si tiene in considerazione il valore della vita, e fare questo non dovrebbe essere una possibilità. Si consumano ogni giorno nel mondo episodi che affondano le radici in modi diversamente problematici in una cultura patriarcale che con troppa facilità demonizza la donna, quando si “permette” di scegliere, di agire cioè secondo quei diritti fondamentali che appartengono a ogni essere umano, quando il comportamento non rientra nelle norme consuetudinarie, figlie di questo pensiero dominante.
Il 3 ottobre a Teheran una donna è stata arrestata perché in compagnia di un’amica faceva colazione senza hijab in un bar, luogo secondo la cultura islamica notoriamente riservato agli uomini. Questa donna è stata giudicata perché non allineata all’assunto di riferimento del contesto di cui fa parte, che identifica in sé il giusto e il vero.
Tuttavia il giudizio è un ottimo modo per allontanarsi dal vero e l’integralismo della parte più conservatrice del regime islamico che si autodefinisce “giusto” propone una costante forma di giudizio nei confronti di tutto ciò che non gli somiglia.
È anche per questo che oggi centinaia di ragazze iraniane, studentesse di liceo, togliendosi il velo e intonando slogan antigovernativi, si aggiungono alla protesta nata a causa dell’ennesimo episodio di ingiustificata aggressione, l’arresto e l’uccisione di Mahsa Amini, che il 16 settembre ha fatto esplodere un moto di rivolta.
In queste settimane molte donne sono state uccise dalla selvaggia repressione messa in atto dalla polizia religiosa, la stessa che ha prelevato e percosso fino alla morte Mahsa Amini.
Questo corpo di polizia ha origine già nel 1979 quando la rivoluzione khomeinista, che istituì la Repubblica islamica, si avvaleva di un corpo di polizia che nel corso del tempo, attraversando il conflitto con l’Iraq (durato fino al 1988), ampliò e modificò le sue competenze fino ad arrivare a controllare nelle università, nei luoghi di lavoro e nei luoghi pubblici che l’abbigliamento e i comportamenti fossero adeguati.
Solo nel 2005 però la polizia morale religiosa viene istituita ufficialmente. Per come la conosciamo noi oggi, si occupa di preservare il costume e i valori ritenuti fondamentali.
Il compito di queste squadre che si muovono per le città è quello di far rispettare alcuni codici di abbigliamento e di comportamento, al fine di prevenire qualsiasi forma di peccato o possibile caduta in tentazione.
Impossibile negare che l’attenzione di questo corpo di “moralizzatori” sia orientata principalmente verso le donne, in particolare verso l’adeguatezza del loro abbigliamento e la precisione con la quale devono indossare lo hijab. Il velo, infatti, sottolinea una dimensione esclusivamente religiosa e rappresenta per le donne musulmane la copertura fondamentale minima, secondo l’interpretazione della sharia.
Una donna può essere prelevata in pubblico in qualsiasi momento ed essere deportata in un centro correzionale per essere poi rilasciata solo, se e quando, un componente di sesso maschile della sua famiglia si reca in commissariato a sottoscrivere l’impegno che la stessa donna manterrà un comportamento adeguato in futuro. Tuttavia questo “privilegio” è riservato soltanto a quelle donne che nel tragitto per arrivare alla stazione di polizia o al centro correzionale non subiscano percosse e muoiano, come è successo a Mahsa Amini.
L’intenzione di annichilire fisicamente e psichicamente una donna, una persona, attraverso le percosse non si qualifica come un comportamento in linea con il “decoro”, qualità fondamentale a cui aderirebbe il regime islamico.
La narrazione che deriva dalle informazioni fino a qui considerate racconta che il solo fatto di essere donna costituisce un’aggravante, se non una vera e propria colpa, per il Regime islamico, evidenziando come l’uguaglianza tra uomini e donne sia una prerogativa inammissibile, estromessa senza soluzione di continuità dal quadro delle possibilità.
Oggi questa proposta di immagine della donna di subordinazione all’uomo si rivela troppo restrittiva grazie alla voce di donne che non vogliono rinunciare alla possibilità di spostare l’attenzione sui diritti e non sulle piccole libertà concesse.
Dopo la morte di Masha Amini e l’arresto di Nilufar Hamedi in molte sono scese in piazza e le loro proteste si sono fatte sempre più accese. Il desiderio di non accettare passivamente un destino deciso da altri oltrepassa i limiti del “concesso”, proponendosi già come una conquista.
Gli slogan di protesta, i suoni delle donne iraniane, hanno una eco mondiale grazie alla loro resistenza e alla capacità di proporsi in modo vitale, ricco di energia e di vivacità. Ed è questo a fare più paura: il coraggio e la giusta pretesa delle donne iraniane di esistere e di essere viste. Troppo spesso in epoche e luoghi diversi, la donna è stata presentata come fragile, da proteggere, da coprire, perché bersaglio facile di chi avesse cattive intenzioni. Proprio questa “cura” ha celato a lungo la peggiore intenzione, quella di farne un bene materiale e non una realtà umana.
Significativo è che per la prima volta nella storia della Repubblica islamica ci si trova di fronte a un intervento repressivo immediato, a causa della mobilitazione di donne che in maniera “spaventosa” danzano e sciolgono i capelli al vento minacciando l’efficacia di quei tentativi di annullamento fisico e mentale che generano passività e resa nei confronti del sistema della Repubblica islamica. Si registra in questa peculiare ribellione il supporto di fratelli, amici, compagni e padri, capaci di riconoscere che questa troppo a lungo taciuta necessità di riconoscimento dell’identità delle donne, adesso più che mai, ha bisogno di una risposta fatta di equilibri e diritti differenti per tutti.
Perché le battaglie che le donne hanno sostenuto nel tempo raramente sono risultate autoreferenziali, ma piuttosto espressione di una ricerca di giustizia sociale e le mobilitazioni di queste settimane raccontano un malessere diverso molto più radicato che deriva da problematiche sociali che non riguardano solo le donne, come le eccessive tassazioni e la disoccupazione. E a dire molto è il numero di giovani che partecipa a questa richiesta di cambiamento.
Eloquente è la presenza di tanti uomini in questa rivolta, che sembra svelare il malcontento che si muove da decine di anni, la necessità di un pensiero nuovo per tutti e un riconoscimento del valore del bene comune. Auspicabilmente avendo compreso che per poter arrivare a questo è necessario che siano riconosciuti per tutti e in egual misura i diritti fondamentali.
Per ora però l’inconsistenza delle donne, agli occhi del regime iraniano, non lascia lontanamente ipotizzabile la loro autodeterminazione, rendendo immediatamente conveniente attribuire a forze esterne l’azione di manovra dei ribelli con l’evidente fine di attuare una repressione fuori misura e di non mettere a fuoco il vero problema. Perché elemento d’analisi, forse, è che non si tratta di autodeterminazione di genere ma di un’intera popolazione, parte della quale plausibilmente sposava un pensiero patriarcale allineato con in regime islamico, ma che nel tempo ha deciso di scendere in piazza per chiedere una risposta diversa. Oggi tutti rischiano la vita, non perché il modo proposto sia violento ma perché ciò che viene loro offerto in risposta è solo repressione armata e cieca, che spara senza guardare.
Ogni regime sa che la forza non è solo nel suo potere ma anche e soprattutto nel poter fare ed è questo che è importante per l’attuale regime iraniano: non guardare per non vedere affinché si taccia e non si sappia!
Ciò che è accaduto a Mahsa Amini, a Nilufar Hamedi, Yalda Moayeri, Nika Shakarami rappresenta il punto di saturazione per chi non si vuole arrendere a leggi repressive e ad abusi da parte della polizia morale e di un intero sistema che, forse, finalmente sta vacillando, non per mano ed opera di un occhio esterno e lontano che propone un suo sistema da esportare ma perché dal di dentro si è maturato un cambiamento di pensiero e una necessità di trasformazione capaci di offrire gli strumenti giusti per una realtà sociale, subito dopo che umana, diversa.
Nonostante il tentativo di condanna al silenzio che passa anche per l’interruzione di collegamenti internet e l’impossibilità di accedere ai social, al fine di reprimere e nascondere la protesta, in questi giorni donne e uomini di almeno 150 città di tutto il mondo si stanno mobilitando contro un regime conservatore che celandosi dietro al Corano alimenta un sistema di terrore e annullamento.
Carlotta Rondana