«Sono un ragazzo d’oro, venite qui a divertirvi/e prima che me ne vada lasciate che vi mostri Tel Aviv». Così cantava nel 2015 Nadav Guedj, concorrente israeliano per il sessantesimo anniversario dell’Eurovision Song Contest. L’immagine che appare di Israele solo guardandolo all’Eurovision Song Contest è quella di un paese moderno, divertente, che rappresenta il bagliore del pop come “unica democrazia del medio oriente”. Immagine ora scomparsa e sostituita da edifici distrutti, sfollati coperti di polvere, sacche di cadaveri e bambini in lacrime, in tutta la Palestina.
Israele all’Eurovision: richiesta di boicottaggio
È dalla prima partecipazione di Israele all’Eurovision Song Contest, nel 1973, che il popolo di Palestina e gli attivisti dalla loro parte richiedono agli spettatori della gara di boicottarne la visione. Dopo le crudeli rappresaglie a danno dei palestinesi, ormai sfociate in una seconda nakba, quelle voci si sono amplificate al massimo. Eppure la European Broadcast Union, che si occupa di trasmettere il festival, permetterà a Israele di concorrere regolarmente.
Decisione criticata soprattutto a paragone con l’esclusione della Russia, che ha smesso di partecipare dall’edizione torinese del 2022. La decisione di escluderli dalla partecipazione si è sollevata a seguito dell’invasione dell’Ucraina, che proprio quell’anno ha vinto (con la canzone Stefania) battendo il record per il maggior numero di voti mai ricevuti. Mentre Israele persiste: il 5 dicembre il canale Twitter ufficiale dell’Eurovision ha annunciato il suo nome tra le trentasette “emittenti” partecipanti.
«L’evento Eurovision è una competizione intesa per la trasmissione pubblica attraverso Europa e Medio Oriente. È una competizione destinata alle reti – non ai governi […] Israele obbedisce a tutte le regole della competizione» è scritto sul profilo ufficiale della European Broadcasting Union. «Eurovision rimane un evento apolitico, che unisce pubblici di tutto il mondo tramite la musica». Una decisione che non convince il pubblico, e le richieste di boicottaggio si levano più forti. Si nota anche che lo sponsor principale dell’evento, la ditta Moroccanoil, è a base israeliana.
Apolitici… ma quanto?
La pretesa apolitica del contest è aggravata dalle azioni dei vecchi concorrenti israeliani, che prendono ferma posizione nel genocidio ancora in corso in favore della loro nazione.
Il 5 novembre, la cantautrice Björk ha pubblicato su Instagram un’immagine raffigurante varie mappe, in ordine cronologico, dell’area palestinese. In esse viene evidenziato, gradualmente, l’espandersi della colonizzazione israeliana; e la cantante di It’s Oh So Quiet, da sempre attiva per cause umanitarie, commenta causticamente, «è questo che chiamate condividere?».
Tra gli utenti che le hanno risposto figura Netta Barzilai, concorrente per Israele nel 2018 e vincitrice tramite la traccia Toy. «Mi hai spezzato il cuore», scrive l’artista sotto la foto di Björk. Qualche giorno prima, il 25 ottobre, Netta si era esibita assieme ad altri connazionali presso una base di soldati dell’IDF, in una performance volta a rassicurare militari e civili e fornire loro una distrazione. Non è stata, peraltro, l’unica concorrente dell’Eurovision a presentarsi all’esibizione: sono stati presenti anche Shlomo Artzi, terzo concorrente israeliano nella storia della nazione, in gara nel 1975, e Harel Skaat, esibitosi nel 2010.
Altre due recenti concorrenti israeliane apprezzate da pubblico e critica sono state, attivamente, militanti per l’IDF. Nel 2021, tra gli avversari dei nostri Maneskin figurava la giovane Eden Alene, con la traccia dall’ironico (e ironizzato) titolo Set Me Free. Alene, immigrata di origini etiopi, si è arruolata nel 2018 in accordo con le leggi del paese e ha servito nel reparto Educazione e Gioventù.
Se Alene ha lasciato la sua carriera musicale e la propaganda che l’ha spesso accompagnata, non si può dire lo stesso di Noa Kirel, che nel 2023 ha conquistato a Israele la medaglia di bronzo con Unicorn. La cantante di Ra’anana si è arruolata nel 2020, interrompendo la sua già ascendente carriera musicale. In un’intervista a Billboard rilasciata in concomitanza, Kirel ha dichiarato che «Non c’è mai stato un dubbio nella mia mente […] se anche la mia condizione medica avesse impedito di reclutarmi mi sarei arruolata. […] L’esercito mi lega alla mia gente. Sto per superare qualcosa di potente come ogni altra ragazza della mia età».
Con l’inasprirsi del genocidio, Kirel ha pubblicato una versione alternativa di Unicorn, con accompagnamento dell’Orchestra Filarmonica di Israele. L’ha corredata con un video musicale di fotografie di ostaggi, soldati dell’IDF e manifestazioni in supporto di Israele. E un messaggio: «In gioia e tristezza saremo insieme, forti contro il mondo. Perché è l’unico modo con cui vinceremo». Kirel ha inoltre raccolto un fondo di quasi trenta milioni di dollari, assieme alla famiglia Ben Yosef, che ha consegnato all’IDF.
Un nome che emerge positivamente, invece, è quello del gruppo islandese degli Hatari. Durante l’edizione del 2019, tenutasi a Tel Aviv, i ragazzi hanno sfoderato sciarpe con la bandiera della Palestina dinnanzi alle telecamere. Qualcuno, quest’anno, seguirà il loro esempio?
Flaminia Zacchilli