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Koyanisquaatsi, genesi di un capolavoro “oracolare”

Koyanisquaatsi, genesi di un capolavoro “oracolare”

Consumismo, iper-produttività, sfruttamento indiscriminato del pianeta e dell’uomo, ma anche tecniche cinematografiche innovative ed estetica all’avanguardia. Cosa può dirci della nostra evoluzione recente il film di Godfrey Reggio.

Ko.yaa.nis.gatsi, viene dall’Hopi lingua dei nativi americani dell’Arizona e sta a significare “vita folle, vita tumultuosa, vita in disintegrazione, vita squilibrata, condizione che richiede un altro stile di vita”. Godfrey Reggio lo scelse come titolo della sua oracolare opera cinematografica e chiese a Philip Glass di curarne la colonna sonora. A fine 2021, quasi quarant’anni dopo l’uscita nelle sale, il “Romeuropa festival”, in collaborazione con l‘Accademia nazionale Santa Cecilia, ha omaggiato il capolavoro del maestro newyorkese nella cornice dell’ Auditorium “Parco della musica” con il coro dell’Accademia al completo e il The Philip Glass Ensemble dal vivo, diretti dal maestro Michael Riesman.

Può sembrare eccessiva o forse anche fuori luogo il termine “oracolare” che ho usato in apertura, ma non lo è affatto se si pensa che i teatri e i luoghi destinati alla riproduzione dell’immateriale sono da poco tornati accessibili e la situazione, non solo in Italia, è ancora quantomeno incerta. Sappiamo tutti che queste restrizioni erano dovuto alla epidemia globale del Covid 19 ed è qui che diviene centrale la proiezione e l’accompagnamento dal vivo delle musiche del film.

Chi di noi negli angusti giorni della pandemia non ha per un attimo pensato o messo in discussione il proprio stile di vita e l’approccio all’ecosistema? Era sulla bocca di tutti la parola: “Natura” e a questa si legavano concetti come l’“armonia con la natura” o, per reazione, la “ribellione della natura” spesso usati a sproposito e con uno slancio verso un’indecifrabile origine primordiale (pura?) dell’uomo. Spinti dalla necessità di trovare un perché e una colpa ci si interrogava rispetto alla diffusione della polmonite devastante che sembrava avere la meglio sulle nostre società. Tutto ciò quando il vaccino era ancora un miraggio e si cercava qualcosa che permettesse anche solo per un istante di rallentarne la diffusone. In quei giorni il sospettato numero uno era l’uomo e il suo scellerato sistema produttivo.

La pellicola di Godfrey Reggio uscita nel 1982 come primo capitolo di una trilogia che include “Powaqqatsi” (1988) e “Naquoyqatsi” (2002), indaga e mette al centro il tema dell’intervento dell’uomo sull’ambiente, narra della coazione a produrre serialmente e dell’alienazione che ne consegue, dell’urbanizzazione dilagante che toglie spazio rendendoci simili a insetti che si muovono camminando uno sopra l’altro. Argomentazioni che oggi, a distanza di quasi quarant’anni iniziano a far sentire il loro peso. Sono sotto gli occhi di tutti i giovani della ricca e opulenta Europa riuniti dietro la figura carismatica di Greta che chiedono ai governati di schierarsi apertamente e trovare soluzioni contro il famigerato “cambiamento climatico”. Per non parlare dei continui moniti delle Nazioni Unite sul “surriscaldamento globale” e le sue devastanti conseguenze. Cosicché, trovandosi dinanzi al capolavoro reggiano capiamo che ha colto nel segno; ci ha, in una certa misura, ammoniti dai lontani anni Ottanta. Dicevo oracolare e lo continuo a sostenere, quando prendo in esame la storia personale di questo regista della Louisiana, nato a New Orleans nel 1940, che ha trascorso 14 anni in un ordine religioso cattolico romano chiamato: “i Fratelli Cristiani” vivendo in comunità, dedito alla preghiera e allo studio, all’insegnamento nelle scuole elementari, medie e superiori. Fondatore di comunità e istituzioni dedite al recupero degli adolescenti coinvolti nel banditismo giovanile che imperversava e continua tutt’oggi nelle strade delle città americane. La sua opera filmica, mettendo al centro il conflitto tra la produzione industriale, la tecnologia imperversante e la natura inscena un’apocalittica collisione che ha un sapore antico e in un certo senso biblico. Ricorda l’arroganza di quegli uomini che sfidando Dio innalzarono una torre nel deserto per arrivare a toccarlo e fallirono in una rovinosa caduta.

Ora, nella nostra contemporaneità, dove il sacro sembra si sia ritirato e quasi del tutto svanito, lasciando spianata la strada alla “tecnica” che ormai, più che un mezzo sembra sia divenuto il fine di tutto (come afferma uno tra i maggiori pensatori del novecento, Martin Heidegger), vedere nel film in che modo l’uomo, attraverso i suoi mezzi e la sua “tecnica”, riesca a trasfigurare, fagocitare e cancellare interi paesaggi, “mettendosi a disposizione le cose del mondo” (cfr Heidegger), ci induce ad una seria riflessione ontologica.

In quest’opera risulta di primaria importanza la colonna sonora scritta dallo statunitense Philip Glass, che insieme a Steve Reich, La Monte Young, Terry Riley e John Adams è considerato tra i capofila del movimento musicale “minimalista” , nato a metà degli anni sessanta negli Usa. A detta di molti “In C” di Terry Riley, composta nel 1964, è il primo disco minimalista. La musique répétitive come è nota in Francia, si differenziava dalle esperienze sperimentali della post-avanguardie europee del “serialismo integrale” (la quale aveva tra i suoi capofila geni quali Luciano Berio e Karlheinz Stockhausen) per il rigetto degli eccessi labirintici e cerebrali di quest’ultima, ritenuta elitaria e rivolta ad un esiguo pubblico di intellettuali. Invece, il minimalismo musicale statunitense alla ripetizione, e quindi serializzazione, aggiungeva la ritmica e l’armonia che democratizzavano l’esperienza d’ascolto di una musica, che pur rimanendo nell’alveo della cultura post-avanguardistica, si rendeva fruibile al grande pubblico. La colonna sonora scritta da Philip Glass per la pellicola nel 1982 è il frutto delle sperimentazioni dei suoi esordi “minimalisti” ed è un lavoro dall’architettura delicata che si sposa alla perfezione con le immagini. Di fatti, è con Koyanisquatsi che inizia la sua lunga carriera come scrittore di colonne sonore, ne scriverà più di una trentina collaborando con grandi maestri del cinema quali Martin Scorsese, per cui compose “Kundun” nominata agli Oscar come migliore colonna sonora, Paul Schrader per “Mishima – Una vita in quattro capitoli”, Peter Weir per “The Truman Show”, Woody Allen per “Sogni e delitti”. Le sue opere, le sue sinfonie, le composizioni per il suo ensemble e le collaborazioni con artisti che vanno dal grande poeta Allen Ginsberg a Leonard Cohen passando per Ravi Shankar, da David Bowie a Paul Simon, dal violoncellista Yo-Yo Ma al premio Nobel per la letteratura, Doris Lessing parlano di un artista in continua produzione e contaminazione. Di conseguenza, appare riduttiva l’accessione di musicista “minimalista”, soprattutto se si osserva la sua evoluzione artistica e le sue collaborazioni negli ultimi 25 anni. Philip Glass e la sua opera si collocano al centro della storia culturale del dopoguerra. Per un’opera come quella di Reggio la scelta della colonna sonora non poteva che cadere su uno sperimentatore come Glass e, in effetti, la musica enfatizza in modo significativo le immagini.

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