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La calda estate di Barbie

La calda estate di Barbie

 

In questo torrido luglio, l’evento più caldo dell’estate cinematografica italiana è stato senza dubbio l’uscita di “Barbie”. Questo film, distribuito nelle sale a partire dal 20 luglio, ha ottenuto un enorme successo presso il pubblico ed è anche stato accolto in modo decisivamente positivo dalla critica specializzata (al momento della scrittura di questo articolo il film ha superato il mezzo miliardo al botteghino, il che lo rende anche il film diretto da una donna col maggiore incasso nella storia del cinema).

La pellicola è diretta da Greta Gerwig, regista di “Lady Bird” e “Piccole Donne”, oltre che sceneggiatrice di film quali “Frances Ha” e “Mistress America” (entrambi diretti dal compagno Noah Baumbach, che risulta, oltre alla stessa Gerwig, autore della sceneggiatura di “Barbie”).

Attraverso quest’opera Gerwig intende servirsi della celebre bambola, ormai quasi assurta a icona moderna, per trattare tematiche con le quali già si era confrontata nei suoi precedenti film.

Il femminismo, l’emancipazione e la parità dei sessi sono i concetti che stanno alla base e sul quale si edifica l’intera vicenda narrata in questa pellicola; Barbie, interpretata da Margot Robbie, si trova a vivere tra due dimensioni: una è legata al mondo di Barbieland, idealizzato e fatto su misura per la protagonista, l’altra è la realtà del mondo vero (seppur in un certo senso volontariamente esagerata). La vicenda ruota attorno a questa dualità e ai contrasti tra le due dimensioni.

Al netto degli elementi positivi presenti nella pellicola di Greta Gerwig, che, per essere sincero, a mio avviso sono veramente pochi, il film è ricco di incongruenze e difetti.

Il più evidente è la scrittura, e quest’ultima risulta veramente approssimativa. Un film che da subito si pone come un ibrido tra cinema d’autore e cinema commerciale d’intrattenimento (la citazione iniziale a Kubrick è una chiara dichiarazione d’intenti), non può avere uno sviluppo narrativo così superficiale: la trama risulta banale e sbrigativa, con dinamiche di contrasto tra personaggi che si risolvono, senza un vero motivo, nell’arco di un cambio di scena. Inoltre, questi ultimi sono abbozzati e bidimensionali (cosa che è normale aspettarsi da una bambola ma non da un personaggio di un film) e questo li rende poco interessanti; i cambiamenti interiori della protagonista sono rapidissimi e a volte ingiustificati e la profondità dei comprimari è del tutto assente. Persino il personaggio di Ken, ovvio riferimento ad un certo tipo di ottusità maschile, non risulta funzionale per la narrazione a causa della pessima caratterizzazione.

Per concludere il discorso legato alla scrittura, il punto più basso viene toccato con le battute: oltre a dialoghi banali e completamente accessori, di cui sostanzialmente il film può anche fare a meno, i frequenti monologhi basati sul senso di rivalsa femminile, ma che in realtà sono composti esclusivamente di slogan vuoti, oltre a rallentare costantemente il ritmo della narrazione, sembrano quasi ottenere il risultato contrario banalizzando decenni di lotte sociali.

Parlando di questo film, infatti, il punto della discussione non deve concentrarsi sull’opinione in merito al messaggio che il film vuole dare (dato che ogni uomo dovrebbe combattere al fianco delle donne per porre fine ai paradigmi di prevaricazione di genere e far si che la società si basi su una vera parità di genere su tutti i piani, salariale, sociale, morale ecc) ma sul modo scelto per veicolare tale messaggio. “Barbie” è un’opera che si compone di slogan, frasi fatte e situazioni surreali che in nessun modo aiutano la causa femminista, anzi in un certo senso la danneggiano banalizzandola. Anni di lotte, mostrati in quel modo, sembrano quasi svanire.

Non basta una scena di una donna che dice ad un’altra donna che può essere ciò che vuole, soprattutto se ciò avviene in un film legato ad uno dei simboli più controversi del Novecento. Va anche preso in analisi il contesto in cui ciò avviene: “Barbie” nasce ad Hollywood da un’idea della stessa Mattel che produce le bambole. Sarebbe davvero ingenuo pensare ad un film di rottura con tali presupposti.

Malgrado le iniziali buone impressioni che avevano seguitato le prime proiezioni di “Barbie”, il film di Greta Gerwig non ha nulla di interessante, intelligente o politicamente impegnato; tralasciando le vergognose opinioni di alcuni commentatori repubblicani statunitensi, il film risulta in tutto e per tutto come la bambola ispiratrice: trovata la nuova gallina dalle uova d’oro, si è trovato il modo di commercializzarla.

Gli ideatori hanno cavalcato l’onda, reso pop il femminismo, trovato prima il modo di esautorarlo e in seguito di commercializzarlo. Infine, ne hanno guadagnato. Così soccombono i principi.

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