Il 7 luglio si è conclusa a Trieste la 50esima Settimana sociale dei cattolici, durante la quale papa Francesco è intervenuto alla convention sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipazione tra storia e futuro”. Preoccupato per i risultati delle europee – e per l’esito del secondo turno delle legislative in Francia, che si sarebbe avuto lo stesso giorno –, il capo della Chiesa di Roma ha riflettuto sulla fase politica attuale, chiosando: «È evidente che la democrazia non goda di buona salute nel mondo odierno […]». L’evento ha riunito 900 delegati di tutte le chiese d’Italia ed è stata l’occasione per incoraggiare i fedeli a partecipare alla vita politica «affinché la democrazia assomigli a un cuore risanato».
LO STATO DELLA DEMOCRAZIA NEL MONDO TRA NUMERI ED ELEZIONI
L’intervento di Papa Francesco ben si adatta ai dati raccolti dall’organizzazione non governativa Freedom House, secondo cui la libertà globale è diminuita per il 18° anno consecutivo nel 2023. Il Democracy Report 2024 elaborato dal V-Dem Institute riporta che il livello di democrazia di cui gode la persona media nel mondo è sceso ai livelli del 1985, periodo corrispondente alla terza ondata di democratizzazione. Alla fine del 2023, si contano 88 autocrazie – chiuse ed elettorali –, dove vivono 5,7 miliardi di persone, il 71% della popolazione mondiale; e 91 democrazie (liberali ed elettorali), dove si concentra il 29% della popolazione mondiale, 2,3 miliardi di persone. Tra il 2010 e il 2018, l’Europa orientale ha cominciato a confrontarsi con il deterioramento democratico, laddove sono i paesi più grandi e popolosi che trainano verso il consolidamento del potere autocratico: Bielorussia e Russia, seguite da Ungheria, Serbia, Croazia e Romania. In quest’area del mondo, il 66% è rappresentato da autocrazie elettorali, il 27% da democrazie elettorali. Il livello di democrazia della persona media corrisponde al livello del 1990, prima dello scioglimento dell’Unione Sovietica.
Una tendenza opposta si delinea, invece, in America Latina, dove sono i paesi più piccoli ad autocratizzarsi, contro i più grandi e popolosi, come il Brasile, che migliorano il proprio livello di democrazia. In Venezuela – che fa parte del 25% dei paesi con più basse prestazioni in rappresentanza (0,25/1), garanzia dei diritti (0,29/1), Stato di diritto (0,08/1) e partecipazione (0,39/1) a livello mondiale [Global State of Democracies – IDEA] – il 28 luglio si sono svolte le elezioni presidenziali in un contesto in cui è stata negata la presenza di osservatori e giornalisti internazionali sul territorio. Spostandoci in Asia meridionale e centrale, la persona media beneficia degli stessi livelli di democrazia del 1975. Sul monitoraggio regionale ponderato pesa, però, il deterioramento democratico che sta attraversando l’India: primo al mondo per popolazione (1,4 miliardi di abitanti), il mandato decennale del primo ministro Narendra Modi – eletto la prima volta nel 2014 – ha portato il paese al suo declassamento da un regime democratico a un regime ibrido (non una democrazia piena, né un’autocrazia piena). Durante i suoi mandati, si sono avute la contrazione delle libertà civili, lo svuotamento delle istituzioni, l’ostilità verso gli oppositori e le minacce alle minoranze religiose. Per il V-Dem, si tratterebbe di un’autocrazia elettorale. Ciononostante, le ultime elezioni avutesi tra aprile e giugno che hanno riconfermato Modi per il terzo mandato, hanno mostrato come il suo partito nazionalista Bharatiya Janata Party (BJP) stia cominciando – a piccoli passi – a perdere presa sulla popolazione: sulla maggioranza assoluta dei seggi (272) che ci si attendeva, il BJP ne ha ottenuti 240. In Medio Oriente e Nord Africa (MENA), se le “Primavere arabe” avevano animato le speranze in un’apertura democratica, dal 2010 in poi si sono ristretti diversi spazi di espressione, senza contare i conflitti che stanno generando disastri umanitari: nei Territori palestinesi occupati della Striscia di Gaza e Cisgiordania, in Yemen e Sudan. Il 15 luglio si sono tenute in Siria le legislative, mentre tra settembre e ottobre sono previste le presidenziali in Algeria e Tunisia, le parlamentari in Giordania, le regionali in Iraq. Il Democracy Index 2023 – Age of Conflict dell’Economist riporta che in 18 dei 44 paesi dell’Africa subsahariana analizzati dall’indice, si è avuto un calo democratico dopo i golpe che hanno interessato la fascia saheliana dal 2020 al 2023, nello specifico in Mali, Ciad, Guinea Conakry, Burkina Faso, Niger, Gabon. Il 15 luglio, le presidenziali in Ruanda hanno sancito l’elezione al quarto mandato di Paul Kagame, mentre il prossimo autunno sono confermate e previste le elezioni in Mozambico, Ciad, Guinea Bissau, Namibia, Ghana e Sud Sudan.
Balzando in Asia orientale e Pacifico, si rileva un andamento complessivamente costante, mentre in Europa occidentale e in Nord America va delineandosi dal 2010 un lento declino democratico.
INSODDISFAZIONE PER LA DEMOCRAZIA
«Ci sono molte ragioni per le quali la qualità della democrazia sta diminuendo in tutto il mondo: come i diffusi e alti livelli di disuguaglianza, uniti al limitato accesso ai servizi che vanno progressivamente privatizzandosi», racconta da New York a L’Atlante editoriale Mandeep Tiwana Singh, chief officer della sezione Evidence and Engagement di Civicus. L’ente che Tiwana rappresenta alle Nazioni Unite – un’alleanza globale di 15mila membri tra organizzazioni e attivisti sparsi in più di 175 paesi con sede in Sudafrica – si occupa di promuovere la partecipazione della società civile, il processo decisionale e la difesa delle libertà civiche. Cerca di contrastare la deriva democratica documentata anche dal Pew Research Center in un sondaggio diffuso lo scorso febbraio: svolto su 30.861 persone in 24 paesi di diverse aree del mondo, emerge che il 59% dei cittadini intervistati è insoddisfatto del funzionamento della propria democrazia; il 74% ritiene che ai rappresentanti eletti non interessino le opinioni dei propri votanti; per il 42%, nessun partito politico rappresenta le proprie idee. E alla domanda: “Cosa o chi potrebbe migliorare il funzionamento della democrazia rappresentativa?”, gli intervistati e le intervistate rispondono che le politiche del loro paese migliorerebbero se ci fossero più donne, più persone provenienti da contesti poveri e più giovani adulti tra le persone elette.
Secondo Tiwana, il funzionamento generale della democrazia migliorerebbe se si avesse «una leadership morale sulla scena internazionale», ma purtroppo «non abbiamo leader con visione e integrità. Mancando ciò, assistiamo all’ascesa del populismo e dell’autoritarismo, che sta creando un mix tossico». Sorge, dunque, spontaneo domandarsi quanto l’autoritarismo sia supportato dai cittadini: nell’indagine del Pew Research Center, il 26% degli intervistati in 13 paesi crede che un leader forte possa adottare decisioni senza interferenze del parlamento, e quindi con maggiore agilità. Questa visione è sostenuta dalla metà degli intervistati in 4 degli 8 paesi a medio reddito ed è caldeggiata principalmente dalle persone con un livello di istruzione limitato e con redditi bassi. Un altro dato interessante riguarda la preferenza per il governo militare, visto come un buon sistema dal 17% degli intervistati in Grecia, Giappone e Regno Unito e dal 15% negli Usa.
Eppure, nonostante queste tendenze, Tiwana segnala che: «la società civile ha dimostrato in diverse occasioni di essere in grado di inaugurare cambiamenti positivi e garantire che le istituzioni corrotte, i leader e i partiti politici autoritari venissero rimossi dal potere. Com’è avvenuto in Polonia, Guatemala e Senegal».
DIRITTO DI PROTESTA E ALL’INFORMAZIONE A RISCHIO
Anche in Europa occidentale la società civile ha fatto sentire la propria voce nel corso del 2023 e dell’anno corrente prendendo attivamente parte a manifestazioni pacifiche. A tal proposito, Amnesty International ha diffuso l’8 luglio un rapporto sullo stato del diritto di protesta in 21 paesi europei dove emerge che i governi hanno usato la “sicurezza nazionale” e “l’ordine pubblico” come giustificazioni per limitare le manifestazioni. Secondo l’ong, le leggi e le politiche in materia di associazione conferiscono ampia discrezionalità alle autorità nazionali che per questo sono più libere di adottare restrizioni, molto spesso in maniera sproporzionata. Com’è avvenuto per le manifestazioni a sostegno del popolo palestinese che sono state vietate dalla Germania, seguita da Austria, Danimarca, Spagna e Paesi Bassi con politiche simili per censurare l’attivismo pro-Palestina. Amnesty riporta che le proteste a supporto dei gruppi etnici minoritari subiscono maggiori restrizioni sulla base di criteri discriminatori e razzisti. È stato, inoltre, denunciato l’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti, nonché detenzioni arbitrarie e accuse penali contro le attiviste e gli attivisti per il clima che hanno partecipato ad azioni di disobbedienza civile. Civicus evidenzia nel Rapporto sulla società civile 2024 che le autorità tedesche hanno fatto riferimento alle leggi sulla criminalità organizzata per punire le azioni del gruppo di attivisti per il clima Ultima Generazione, mentre la polizia britannica ha arrestato i manifestanti che protestano contro l’utilizzo dei combustibili fossili.
Repressione istituzionale, incapacità dei governi di rispondere responsabilmente ai bisogni della popolazione e alle reali urgenze del nostro tempo – come, appunto, la crisi climatica –, crescita delle disuguaglianze e della povertà, rabbia sociale che avanza, contribuiscono all’humus degli estremismi. Che sono influenzati anche «dai media concentrati nelle mani di pochi individui facoltosi che li usano per promuovere la propria versione di propaganda e diffondere disinformazione – online, in televisione, sulla carta stampata», afferma Mandeep Tiwana. A sua volta, la stampa che prova a rimanere libera, indipendente e plurale è messa fortemente alla prova dalle pressioni dei proprietari dei media e degli inserzionisti, come documenta il Centre for media pluralism and media freedom (CMPF) nel Monitoraggio del pluralismo dei media nell’era digitale riguardante gli Stati membri dell’Unione europea e i paesi candidati. Per quanto concerne l’Italia, nello studio viene evidenziata l’abitudine dei funzionari governativi a intraprendere azioni legali per diffamazione allo scopo di avviare casi SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation) o anche detti “querele temerarie”. Modus operandi che mira a mettere a tacere e/o screditare i professionisti dell’informazione.
Nadia Addezio