Video di rumori bianchi (pioggia, temporali in lontananza ma anche un phon o un microonde accesi) che durano ore, compilation di suoni ripetitivi, asmr più disparati (persone che vanno dal barbiere, si pettinano, sfiorano cose o parlano sussurrando). In La colonna sonora dell’esaurimento nervoso, pubblicato sul numero estivo (maggio- agosto) dello scorso anno [2023] dalla rivista Nuovi Argomenti, Edoardo Vitale traccia impietosamente un ritratto dei nostri tempi prendendo le mosse dal contesto lavorativo: «L’open space imbottito di scrivanie, dove dietro a grandi schermi Apple sedevano una manciata dei miei colleghi, era silenzioso e mansueto, nessuno scambiava una parola. Non proprio l’immagine idilliaca della frenesia di un’agenzia creativa nel bel mezzo di un qualsiasi giorno feriale. No, lì c’erano solo trentenni con scarpe da trekking e smanicati Patagonia (forse avrebbero approfittato della pausa pranzo per scalare una montagna?), e delle grandi cuffie bluetooth in testa, che sedevano composti. Ognuno immerso – avrei scoperto – nella sua playlist di musica ambient o derivati. Per isolarsi, per riuscire a pensare meglio, per riuscire a pensarsi altrove (magari alle pendici di una montagna)».
Pensarsi altrove. Il torchio della quotidianità stritola sempre di più i lavoratori che, sfiniti, ai limiti del burnout, si chiudono nelle loro bolle fatte di social network, applicazioni per distrarsi con musica di cui un algoritmo ha pianificato anche i possibili futuri ascolti. Condire il tutto con palazzoni impersonali alle periferie delle metropoli, grande distribuzione per la sopravvivenza quanto basta.
La paura di un isolamento può essere superata se si sta bene nella propria bolla, così almeno promettono i mezzi digitali ad alta assuefazione di cui ci cibiamo: l’aspirazione alla realizzazione (ma anche allo svago post-lavorativo e alla sopravvivenza, per certi aspetti) non diventa più collettiva ma individuale.
Sotto quest’aspetto, l’Italia del 2024 è sideralmente distante da quella al termine dei cosiddetti trenta gloriosi e dei decenni successivi.
Nel 1977 nel forlivese capitava di sentire, in una sezione del Partito comunista italiano, persone sostenere scientemente il desiderio che l’Italia terminasse a Firenze: «Noi lavoriamo e voi mangiate». La scenetta, così come la risposta per le rime che diede l’altra interlocutrice, è stata raccolta in un volume di appunti di viaggio pubblicati dall’editore Gabriele Mazzotta insieme all’Istituto Ernesto De Martino. L’autrice era Giovanna Marini e nel 1977 pubblicò l’agile libretto dal nome «Italia quanto sei lunga», scritto dopo aver percorso l’Italia in lungo e in largo, suonando nei circoli Arci semivuoti, in sezioni del Partito comunista italiano, presso circoli operai, sezioni dell’Udi, in circoli dissidenti del Pci e in un crogiolo di altre sedi che erano l’avamposto di organizzazioni sociali e sindacali. Al momento della sua scomparsa, i pochi quotidiani e periodici che ne hanno scritto sensatamente hanno parlato di un’artista «poliedrica». E in effetti così era. Lo era talmente tanto da essere considerata, già allora, di nicchia e non per tutti.
La cittadina di cui raccontava Marini era Forlì e sebbene il Partito comunista italiano era solito prendere il doppio dei voti della Democrazia cristiana, il forlivese era considerato pieno di torpore ideologico e non era considerato politicamente maturo dagli accompagnatori della cantante. Constatatone il torpore, Marini suona nonostante lo scarso interesse del pubblico: «anche questa volta mi sono dimenticata di chiedere per chi sto cantando, per quale accostamento di lettere», annota sornionamente. Il riferimento era al crogiolo di organizzazioni collaterali al Pci (Anpi, Udi, Arci e via dicendo che formavano strani «accostamenti consonantici»).
Il tempo segnato dai racconti di Giovanna Marini pare sia trascorso solcando un tracciato profondissimo con l’attualità. Come fosse un aratro, il tempo ha scavato fino quasi a raggiungere le viscere della terra. Non si sta facendo riferimento alla citazione tra nord e sud. Non già, dunque, per il riferimento secessionista tra nord e sud che avveniva nelle sedi del Partito comunista italiano in una provincia più-che-rossa dell’Emilia-Romagna (anticipando di un abbondante quindicennio la creazione dei primi movimenti leghisti che evidentemente traevano la loro ragion d’essere in un comune sentire transpartito, anche se spesso posto sotto forma di battuta), quanto piuttosto per il contesto politico, culturale e sociale di cui si parla.
Un contesto in cui la musica rappresentava tanto il fare quanto l’ascoltare, così come pure il partecipare: andava a mostrarsi, cioè, come un fattore attivo e partecipativo ma anche passivo (nell’accezione non negativa del termine) del genere umano tutto. Un fattore non individuale e, anzi, collettivo.
Per dare un’idea di quanto profondo sia il solco (e il conseguente vallo), vale la pena di citare nuovamente l’articolo di Vitale: «Nel luglio 2020 un articolo del «New York Times» intitolato Yout most played song of 2020 is… White noise? raccontava l’esperienza di molte persone che come me avevano il proprio Spotify Wrapped dominato da rumori di pioggia. Non molto tempo dopo su Pitchfork usciva un longform di venticinque mila battute intitolato Inside the Ambient music streaming boom, che analizzava la conseguente proliferazione di artisti che questa musica la producevano».
Le piattaforme di streaming hanno fiutato l’affare e hanno occupato la fetta di mercato; d’altra parte l’intelligenza artificiale sta aiutando la diffusione di questo particolare genere di ascolto. La routine della bulimica fruizione musicale è sempre più passiva nell’Italia del XXI secolo, così come in buona parte dell’occidente, sconquassato dall’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e dalle reti sociali di diffusione di video ad alta assuefazione.
Provare a raccontare un prima di ascolto, partecipazione al prodotto musicale e della fruizione musicale è compito arduo e sembrano migliaia i chilometri di crosta terrestre che abbia percorso l’immaginario costruttore per edificare le altrettanto metaforiche fondamenta del muro che separa la generazione della Vivazione dalle varie stratificazioni attuali (X, Z, Millennials etc).
L’esperienza sensoriale musicale è altro dal canto come elemento collettivo, di affermazione e di liberazione. Giaime Pintor e Simone Dessì lo scrivevano negli anni ‘70: «il canto è sempre canto di opposizione» ed era «in qualche modo ‘politico’». Nel 2021 lo aveva ribadito ancora Giovanna Marini: «La canzone è una forma espressiva immediata ed è di tutti: è quello che scaturisce più rapidamente dalla psiche, dall’animo di chi canta. Soprattutto se è un canto inventato sul momento […] Non scomparirà mai».
Eppure oggi cercare di proiettarsi in altri luoghi al di fuori dei quali si è costretti o ci si è ritrovati ad essere rappresenta la missione principale dell’ascolto, sempre più passivo e meno attivo, nel senso letterale e metaforico del termine. Piantarsi le cuffie prima di salire in metropolitana, riattivare subito questa o quella canzone prima di rientrare nell’ascensore condividendone lo spazio con altri sconosciuti, entrare nel supermercato per le spese con la propria i nelle orecchie. Il ruolo della fruizione musicale è diventato fattore egocentrico ed egoico, oltre ad essere considerato un fenomeno di massa attraverso l’ascolto in linea di un numero spropositato di canzoni tramite apposite applicazioni su dispositivi elettronici.
Insomma, niente di più di un consumo di massa, ben dentro alle logiche di mercato e della fruizione a pagamento di contenuti musicali che poco hanno a che fare – pure – con la creatività e la sperimentazione di quel che l’artista riesce a dare di sé.
Un egoismo così lontano da quel che negli scorsi decenni animava la volontà di partecipazione e di superamento di se stessi nella conoscenza dell’altro (e del mondo) anche attraverso manifestazioni collettive di ascolto e di realizzazione musicale.
Il sé è über alles. Poco importa degli altri.