La Repubblica dei Ragazzi, un esperimento riuscito da 80 anni

La Repubblica dei Ragazzi, un esperimento riuscito da 80 anni

La Repubblica dei Ragazzi. Foto: Giulia Bucelli

Si chiama Repubblica dei Ragazzi ed è nata 10 mesi prima di un’altra Repubblica, quella italiana. Esiste da quasi 80 anni.

Il suo scopo originario era dare assistenza a bambini e ragazzi nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale: toglierli dalla strada, formarli e guidarli verso la propria indipendenza. Una missione riuscita molte volte nel corso dei decenni.

È la Repubblica dei Ragazzi, fondata da don Antonio Rivolta appena 10 mesi prima che nascesse, dal referendum del 2 giugno 1945, la Repubblica Italiana. Il primato della Repubblica dei Piccoli su quella dei Grandi.

Una realtà che, per ironia della sorte, nacque nella tenuta di un fascista che pare fosse scappato al termine della guerra – della sua sorte non si sa nulla – abbandonando la propria villa di campagna, con tanto di cappella di famiglia, in un terreno che si estendeva per 50 ettari.

A gestire la struttura, dal 2014 a oggi, è l’ente ecclesiastico della congregazione clericale dei Missionari della Divina Redenzione, fondata nella città di Visciano (vicino Napoli) nel 1954. Di questa congregazione fa parte padre Rafael Antonio, attuale direttore della Repubblica dei Ragazzi.

Lo abbiamo incontrato in una calda giornata di luglio per farci raccontare un po’ di storia: la sua e quella della Repubblica, che si sono incrociate ormai 10 anni fa.

Padre Rafael, l'attuale direttore della Repubblica dei Ragazzi

Repubblica dei Ragazzi, l’intervista al direttore Padre Rafael Antonio

Padre, com’è arrivato in Italia e alla Repubblica dei Ragazzi?

“Sono originario della Colombia. Sono arrivato in Italia perché faccio parte di una comunità religiosa, i Missionari della Divina Redenzione, fondata da un sacerdote italiano in provincia di Napoli, che nel dopoguerra ha iniziato a raccogliere ragazzi in difficoltà nel Napoletano. Negli anni Settanta è andato in Colombia e lì ha aperto opere socio-educative per i giovani.

Io ho conosciuto la comunità lì, sono entrato in seminario e poi, proseguendo gli studi, mi hanno proposto di finire gli studi in Italia. Sono andato a Roma, ho studiato Teologia e poi, dopo essere stato ordinato sacerdote, sono stato in provincia di Napoli in diverse città – Torre Annunziata, Visciano, Napoli – dove abbiamo alcune opere per ragazzi.

Nel 2014 sono arrivato alla Repubblica dei Ragazzi. La comunità religiosa che l’aveva portata avanti per tanti anni era in difficoltà, così hanno cercato un’altra comunità che potesse gestirla in continuità con il passato. Negli uffici del Vaticano è stato fatto il nome della nostra Congregazione. Nel 2014 abbiamo preso questo impegno. Qui prima c’era un sacerdote, don Marcello, che abbiamo conosciuto e ci ha proposto un periodo di affiancamento nella gestione. È morto 15 giorni dopo il nostro incontro. A questo punto il passaggio di consegne era più urgente, così siamo arrivati nell’agosto del 2014”.

Il progetto di questo posto è perfettamente in linea con i principi della vostra congregazione.

“Esattamente. Anzi, le dirò di più: i fondatori della Repubblica dei Ragazzi, don Antonio Rivolta e monsignor John Patrick Carroll Abbing hanno conosciuto il nostro fondatore, padre Arturo. Padre Arturo accoglieva gli scugnizzi napoletani, mentre gli altri due hanno cominciato ad accogliere gli scuscià.

Questi due sacerdoti hanno recuperato spazi a Roma per accogliere questi ragazzi che trovavano per strada. Don Antonio riuscì a prendere questa tenuta, di proprietà di un ex fascista. In origine c’era solo l’ingresso principale dove c’è il colonnato: il resto era una grande tenuta con circa 60 ettari di terreno.

La casa era stata bombardata, i tetti erano rovinati, e il proprietario era andato altrove. Don Antonio prima l’ha affittata, poi, trovando aiuti e benefattori, è riuscito ad acquistarla. A Ferragosto del ‘45 ci ha portato a dormire i ragazzi che aiutava a Roma. Un po’ alla volta hanno cominciato ad arrivarne altri. L’idea di Don Antonio era chiara fin dall’inizio: il posto gli era piaciuto perché era aperto, privo di recinzioni e di spazi chiusi.

Monsignor Carroll Abbing aveva realizzato qualcosa di simile a Roma, in uno scantinato: si chiamava l’Albergo degli Scuscià, e ospitava per la notte i ragazzi di strada. Lo spazio era piccolo e insalubre, tanto che lui stesso si è ammalato: ed è proprio per questo che è arrivato qui, perché gli hanno detto che aveva bisogno di aria di mare.

Il salone nel quale la storia della Repubblica dei Ragazzi ha avuto inizio.
Foto: Giulia Bucelli.
Può raccontarmi il fatale incontro tra Carroll Abbing e Rivolta?

Quando è arrivato qui, dopo aver contattato don Antonio, si è reso conto della potenzialità del luogo. Aveva contatti al Vaticano e gestiva molti degli aiuti che arrivavano dall’America nel dopoguerra. Così cominciò a fare una raccolta fondi per il posto e con quei soldi cominciò a costruire tutto ciò che è sorto dopo. Quell’incontro lì è stato provvidenziale, ovviamente lui ha portato i suoi ragazzi anche qui.

Il suo arrivo ha portato a due creazioni: quella della struttura attraverso i fondi e dall’altra parte quella di uno stile educativo che in Italia era una novità. Si trattava di uno stile che permetteva ai ragazzi di essere protagonisti della propria educazione. Non c’era un’imposizione di regole, ma si faceva in modo che i ragazzi si rendessero conto che c’era bisogno di queste regole per poter vivere insieme.

Non è che non ci fosse la disciplina, ma si imponeva in modo diverso. A partire dall’idea che non ci fossero recinzioni, perché chi voleva restare lo facesse perché lo voleva davvero, senza obblighi. Ha cominciato a nascere l’idea di essere “cittadini”, di appartenere a questa comunità.

I ragazzi hanno iniziato a trovare da soli soluzioni ai propri problemi confrontandosi. Così sono nate le assemblee: ogni sera i ragazzi si riunivano e discutevano di ciò che era successo nel corso della giornata. L’assemblea, però, aveva bisogno di qualcuno che la dirigesse: così si decise di eleggere un sindaco. Parallelamente nasceva l’idea democratica della Repubblica Italiana.

Oltre al sindaco occorrevano persone che si prendessero incarichi per altre attività e anche persone che aiutassero nella risoluzione dei conflitti più complessi. Qui fu d’aiuto un educatore, Tullio Gramsci, direttore pedagogico della neonata Repubblica: in seguito a un colloquio con i ragazzi furono istituite la figura del giudice e degli avvocati, carica che veniva assegnata ai ragazzi stessi.

Il ragazzo doveva portare il suo problema non all’educatore ma l’assemblea, poi si faceva una causa. In seguito, per praticità, è venuta fuori l’idea di creare una moneta interna, che prese il nome molto significativo di merito. L’idea era che il ragazzo guadagnasse i meriti che gli servivano per vivere, per mangiare. Durante la giornata c’erano un momento di studio e un momento di lavoro: quest’ultimo produceva i meriti che poi, la sera, si portavano al ristorante per mangiare.

I ragazzi venivano dalla strada, quindi avevano un modo completamente diverso di vivere e di confrontarsi con gli altri, oltre che il bisogno di una gratificazione immediata. Per loro ricevere immediatamente il merito era uno stimolo immediato e concreto. Poi il fatto di andare al ristorante e di dover mettere il merito sulla tavola era volto ad eliminare nei ragazzi l’idea dell’assistenzialismo: loro non dovevano sentire che gli stavano regalando qualcosa, ma che se lo stavano guadagnando.

Il merito è diventato poi una vera e propria moneta. I primissimi erano semplici noccioli di pesca, ma venivano falsificati facilmente. Quindi si è arrivati a coniarli alla Zecca dello Stato: alcuni erano in bronzo, in argento e addirittura in oro.
C’era una banca e c’era il cambio di valuta: ogni settimana il merito mutava di valore in base all’oscillazione della lira. Tutto questo insieme di cose ha contribuito a creare il metodo educativo dell’autogoverno”.


In cosa la sua passata esperienza nella provincia di Napoli si differenzia rispetto a ciò che fai oggi alla Repubblica dei Ragazzi?

“Sono situazioni diverse. Da una parte sono stato a Torre Annunziata in un collegio dove c’era una ventina di ragazzi, dall’altra a Visciano, che è un piccolo paese, dove è nata l’opera. Noi assistevamo i ragazzi come in un collegio vecchia maniera, non esistevano ancora le case famiglia. Era un lavoro molto diverso: un po’ perché i ragazzi sono diversi nel modo di essere e di comunicare, un po’ perché questi ragazzi venivano da situazioni complesse, vivendo nello stile della camorra, avendo un atteggiamento più aggressivo. Inoltre lì non avevamo questo stile pedagogico, era molto più classico, e c’era anche una diversa disponibilità di educatori.

Oggi, per ogni casa famiglia, tu hai un’equipe che include 2-3 educatori; ogni educatore, durante un turno, si prende cura di 5, 6, 7 ragazzi. Lì, di solito, c’ero io con 20 ragazzi.

A Visciano, paesino di  5000 abitanti, ho avuto l’incarico di fare un centro giovanile. Lì lavoravi con ragazzi volontari che volevano fare qualcosa, e insieme a loro si lavorava per offrire un servizio educativo.

Poi sono arrivato qua con un ruolo completamente diverso: quello del direttore. Un conto è essere l’educatore dei ragazzi, un conto è farsi carico della parte amministrativa e organizzativa. Non trascorri la giornata con i ragazzi”.


Com’è stato il primo impatto con la Repubblica dei Ragazzi?

“Prima di approdare qui abbiamo passato due anni immersi in un’altra esperienza particolare: la comunità è stata invitata alla Città dei Ragazzi a Roma, a La Pisana. Apparentemente volevano affidarci la direzione di quel posto, cosa che non si è mai realizzata, ma è stato importante: in quel momento lì c’erano 60 ragazzi, quasi tutti egiziani o albanesi, divisi in 6 case famiglia.

Quell’esperienza ci ha permesso di vedere cosa significava stare in un ambiente simile a questo, ché poi la Città dei Ragazzi è stata fondata dallo stesso monsignore, 10 anni dopo la Repubblica.
Due anni preziosissimi, durante i quali abbiamo studiato Scienze dell’Educazione: lì, non essendo direttore, a Roma stavo molto a contatto sia con i ragazzi che con gli educatori comprendendo meglio le difficoltà di questi ultimi”.


Mi ha stupito molto la differenza nel numero di residenti tra i primi anni della Repubblica e oggi: sa spiegarmi il perché?

“In questi anni l’Italia è cambiata radicalmente. Il tipo di ragazzi che c’era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando i residenti erano 160, quando le famiglie cominciavano a stabilizzarsi economicamente, c’erano tanti figli e le famiglie cercavano un modo in cui quei figli potessero trovare un lavoro.

Si è passati da un momento in cui si invitavano gli scuscià a venire qui a un momento in cui le famiglie stesse consideravano un privilegio avere uno dei loro figli qui, perché c’erano i laboratori e la possibilità di imparare un mestiere. In quel momento, avere 1-2 figli in un collegio era una cosa positiva. Tutti i collegi erano pieni: offrivano la possibilità di studiare in modo gratuito e di imparare un mestiere.


Oggi le famiglie quasi non hanno figli e quando li hanno, 1-2, non hanno bisogno di mandarli in un collegio. Siamo passati dall’avere ragazzi che erano stimolati a venire all’avere ragazzi che vengono perché lo decide lo Stato quando c’è qualcosa che non va nelle loro famiglie”.


I ragazzi che vengono qui ci vengono tutti per l’ordinanza di un giudice?

“In questo momento è cambiata proprio l’idea degli istituti: la famiglia non può scegliere di avere un figlio in un istituto. Ora ci sono le case famiglia, e lì si entra solo con l’intervento dell’assistente sociale. Giustamente, l’idea è che se si può fare qualcosa in famiglia per aiutare i ragazzi è bene che restino in famiglia.

Normalmente, una casa famiglia ospita dai 6 agli 8 ragazzi. Qui ne abbiamo 45: è straordinario rispetto a quanto accade normalmente, ed è possibile perché lo spazio è molto grande. Nel 2001-2002 il direttore che c’era allora ha dovuto affrontare il cambio di legge. Le opzioni possibili erano due: o chiudere e dedicarsi ad altro oppure trasformare i vecchi dormitori che c’erano in case famiglia.
Si è optato per la seconda soluzione, così ora ci sono 6 case famiglia: ogni appartamento può ospitare massimo 8 ragazzi, le stanze possono essere massimo da 3. Ogni casa ha la sua cucina e il suo salone. Si cerca di mantenere un ambiente più o meno familiare”.

L'esterno di due delle 6 delle case famiglia-appartamenti presenti nella Repubblica dei Ragazzi

Secondo lei il numero di educatori attualmente presenti nella struttura è sufficiente per sopperire alle vostre necessità?

“Non si può fare paragone con il prima, quando c’era un educatore ogni 50 ragazzi. Era molto diverso: tu avevi gruppi omogenei di ragazzi, della stessa età, divisi per gruppi e per bisogni. Oggi i ragazzi stanno qui perché devono starci e abbiamo fasce d’età molto diverse: si va dagli 8 fino ai 21 anni, quindi non puoi fare lo stesso lavoro con tutti.

Abbiamo ragazzi italiani che hanno problematiche familiari serie per le quali interviene il giudice o l’assistente sociale e li allontana dalla famiglia. Spesso i genitori perdono la patria potestà, quindi noi ce ne facciamo completamente carico. Prima tornavano a casa il fine settimana, quando finiva la scuola, adesso invece spesso restano qui.
Se sono bambini o ragazzi minorenni si inizia un progetto educativo per vedere se c’è la possibilità che un giorno tornino in famiglia, ma non succede sempre.

Un’altra possibilità, se il bambino è piccolo, è che venga indirizzato verso un affidamento o un’adozione. Se il ragazzo è più grande è difficile che ci sia un affidamento, quindi probabilmente andrà accompagnato verso l’autonomia o verso un ritorno a casa nella maggiore età.

Poi ci sono i ragazzi che sono hanno commesso un reato e, piuttosto che mandarli in carcere, vengono mandati in comunità. In questo caso il nostro obiettivo è quello di farli uscire con un’idea diversa di legalità.

Infine, c’è una terza tipologia: i minori stranieri non accompagnati. Ragazzi che arrivano qui illegalmente dall’Egitto, dall’Albania, dall’Africa un progetto molto chiaro: mettersi subito a lavorare e guadagnare soldi da mandare a casa per ripagare il viaggio alle loro famiglie, che si sono indebitate. Il minore straniero che viene accolto, se vuole avere il permesso di soggiorno a 18 anni, deve prendere perlomeno la terza media, deve studiare. Visto che questi ragazzi arrivano e vogliono lavorare, perché magari nei loro Paesi a 16 anni già si lavora, devi fargli capire che devono anche studiare. Non è un fatto di cultura: a quell’età si adattano molto facilmente al sistema italiano e ai compagni. Però dietro hanno la pressione della famiglia, magari hanno già una moglie promessa in sposa nei Paesi d’origine.

Mettere insieme tutti questi progetti è faticosissimo. E quindi sì, riusciamo a coprire le spese degli educatori, ma dire che sono sufficienti è un parolone”.


Quanti educatori avete, attualmente?

“Abbiamo 34 dipendenti di cui 29 educatori”.

Il primo stendardo simbolo della Repubblica dei Ragazzi, conservato nella chiesa
Qual è la tipologia di residenti che prevale, qui alla Repubblica dei Ragazzi?

“A differenza della Città dei Ragazzi, dove il 99% dei residenti era straniero, noi abbiamo cercato di mantenere un equilibrio. Lo scopo è permettere anche ai minori stranieri di integrarsi, perché sennò diventa un ghetto. Alla Città dei Ragazzi raramente sentivi qualcuno parlare in italiano, parlavano tutti arabo. Facevi una fatica enorme per farli parlare in italiano, e non c’era integrazione.

Qui sono obbligati a integrarsi. Per esempio, la scelta di accogliere anche ragazzi del circuito penale, prevalentemente italiani, è legata anche a questo aspetto”.


Vi capitano anche ragazzi che provengono da contesti di mafia?

“È capitato. Abbiamo anche qualche progetto di protezione testimoni con il Ministero dell’Interno, e abbiamo qualche ragazzo che si sposta da una regione all’altra per potersi staccare completamente dal contesto d’origine. I ragazzi che abbiamo qui magari hanno fatto il palo, hanno portato il pacchetto (di droga, ndr), ma non sono colpevoli di reati gravi”.


Qui una volta c’erano tanti laboratori in cui i ragazzi potevano imparare mestieri: oggi portate ancora avanti qualche laboratorio?

Laboratori professionalizzanti in senso stretto non ne abbiamo. Ogni anno organizziamo un corso di 3 mesi di pizzeria e ci sono anche ragazzi che hanno imparato a fare la pizza e sono diventati pizzaioli. Nell’ex pizzeria ora c’è un laboratorio di ceramica gestito da una volontaria di Santa Severa ma non è più professionalizzante.

Prima uscivano ceramisti anche di un certo livello e imparavano quel mestiere. Oggi il problema è anche come organizzarli. Prima avevi 160 ragazzi: avevi 30 che facevano la tipografia, 30 che facevano i meccanici… Organizzare un corso annuale per 30 ragazzi era un altro conto. Oggi abbiamo anche bambini delle elementari e delle medie che devono continuare a studiare e, se tutto va bene, riesci a mettere insieme un gruppo di 5-6 ragazzi che fanno il corso di pizzeria, a cui dobbiamo aggiungere un numero di 5-6 esterni per raggiungere un numero minimo di 10 ragazzi.

Il laboratorio di pizzeria è un investimento non esagerato. Se vuoi fare il laboratorio di falegnameria devi preparare la struttura, comprare le attrezzature, seguire un protocollo ben preciso… Se poi devi fare un corso per 4-5 ragazzi non ha senso.

Anche investire per fare corsi professionali da offrire all’esterno, al momento, è qualcosa che non possiamo permetterci. Ci sarebbero le strutture al mare ma bisogna prima trovare il modo di continuare a sistemarle (quelle strutture avevano ottenuto il bonus del 110% ma al momento i lavori sono fermi, ndr).

I centri di formazione professionale richiedono un impegno iniziale importante e poi sono soggetti a finanziamenti regionali di anno in anno che devi sempre andare a cercare. Mantenere tutto questo è complesso.

Uno dei fattori decisivi è il tempo. In passato arrivavano ragazzi di quarta elementare e rimanevano fino ai 17-18, quindi restavano qui comunque 5-6 anni”.

Uno degli edifici più antichi della Repubblica dei Ragazzi.
Foto: Giulia Bucelli.



Qual è la permanenza media di un ragazzo qui oggi?

“Negli ultimi 10 anni sono passati di qua circa 340 ragazzi. Con un gruppo che è cresciuto da 23 a 45 residenti, è evidente che la permanenza media oggi è molto breve. I ragazzi del circuito penale possono restare da 3 mesi a 3 anni, i bambini piccoli in attesa di affidamento da 6 mesi a un anno. Abbiamo un ragazzo che oggi va all’università ed è arrivato, come noi, nel 2014. I ragazzi che vanno e vengono significano anche il cambiamento della comunità.

Alcuni ragazzi, specialmente italiani, vengono inseriti qui con diagnosi psichiatriche lievi – borderline o disturbi dell’attenzione – ma finché non li conosci non sai mai cosa aspettarti. Siccome c’è difficoltà ad accogliere questo tipo di ragazzi, spesso i servizi sociali te li presentano come casi molto più gestibili di quanto non siano. In alcuni casi si possono creare situazioni drammatiche”.


Un esempio?

“Circa 5 anni fa abbiamo avuto un ragazzino che apparentemente era normale, ma aveva momenti in cui perdeva completamente la testa, spesso correva e si buttava a terra sull’Aurelia perché voleva morire. Ha causato anche alcuni incidenti. Gli educatori gli correvano dietro, però non riuscivano a correre veloci come un ragazzino.

Il problema è che tu dici agli assistenti sociali che quel ragazzo non può stare qui, ma può passare molto tempo dalla comunicazione  a quando accolgono la richiesta trovandogli un’altra sistemazione. Nel frattempo lui scombussola tutta la comunità con urla e grida e gli altri ragazzi cambiano totalmente atteggiamento”.


C’è futuro per la formula dell’autogoverno che veniva e viene portata avanti in questa comunità? Si potrebbe applicare con profitto anche altrove?

“Ovunque, il punto è cosa si intende per autogoverno, L’idea è dire ai ragazzi che c’è una problematica ed esortarli a risolverla autonomamente: questo non significa lasciare i ragazzi da soli bensì trovare un modo per aiutarli senza che loro se ne accorgano. I ragazzi devono capire di avere una responsabilità. Questo non significa che se io propongo l’autogoverno in un altro contesto questo implichi che ci sia un sindaco, un giudice, o il merito. Può avere tante forme.

Il concetto è che piuttosto che ricevere consigli da un adulto, i ragazzi possano provare a trovare le soluzioni ai problemi. Così i ragazzi possono provare anche i fallimenti, comunque contenuti.

Nei due anni che sono stato alla Città dei Ragazzi ho sperimentato l’autogoverno – che ora non c’è più. Lì c’era ancora perché c’erano gli educatori che lo avevano portato avanti per tanti anni: facevano le assemblee, le cause. Quando sono arrivato qua non c’era più nessuna traccia di autogoverno: non c’era più l’assemblea, c’era ancora il merito ma non aveva più senso.

Quando sono arrivato ho provato il desiderio di recuperare quella modalità. Dopo 5-6 mesi che stavo qui ho riaperto l’assemblea nel museo, con una costituente. All’inizio non è stato semplice, anche con gli educatori che lavoravano da anni qui e avevano paura di perdere il controllo della situazione.

Abbiamo scritto una nuova Costituzione che stabilisse ogni quanto andava eletto il sindaco e quali erano gli assessori.

L'attuale sala dell'Assemblea della Repubblica dei Ragazzi.
Foto: Giulia Bucelli.
Quali sono le figure presenti oggi nell’autogoverno?

“C’è il sindaco. Non sono più presenti il giudice e gli avvocati perché essendoci un gruppo più piccolo e disomogeneo di ragazzi, creare anche quelle figure sarebbe stato molto complesso. Se c’è un problema si discute in assemblea e si decide tutti insieme.

Il sindaco viene eletto ogni 2 mesi e sceglie la sua giunta, composta da un assessore alle Attività, uno ai Lavori e uno alle Finanze. Il primo raccoglie le idee di iniziative proposte dai ragazzi e fa da interfaccia con il direttore.

Il secondo supervisiona i lavoretti che si fanno al di fuori delle case, come la pulizia delle strade, e si preoccupa di caricare i meriti guadagnati, che ora sono in forma digitale (la Repubblica ha oggi una banca online, ndr). I ragazzi potranno spenderli poi all’emporio, la cui gestione spetta al sindaco.

Il terzo è incaricato di raccogliere tutti i meriti e tutte le multe dei ragazzi e caricarle sul computer ogni venerdì: deve avere quindi una certa dimestichezza con la tecnologia ed essere svelto a scrivere, visto che deve anche preparare verbali. Per questo capita che quella figura sia ricoperta a lungo dallo stesso ragazzo. Si tratta di un ruolo più operativo che di potere”.


Mi tolga una curiosità: dalla Repubblica dei Ragazzi è uscito qualcuno che ha avuto, poi, un grande successo?

“Un nome mi viene in mente ed è quello di Teo Mammuccari. Ogni tanto passa a trovarci”.

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