Trump contro il Sudafrica: alle origini della “Paypal Mafia”

Trump contro il Sudafrica: alle origini della “Paypal Mafia”

Lo scorso 14 marzo Marco Rubio, Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, ha scritto in un post su X che Ebrahim Rasoom, ambasciatore sudafricano a Washington, è stato dichiarato “persona non grata” e non è più il benvenuto su suolo statunitense. A corredo del post, Rubio ha inserito il link a un articolo di Breitbart, il giornale online dell’estrema destra americana, che accusava Rasoom di “odiare l’America e il presidente Trump”. Ebrahim Rasoom, musulmano e forte critico delle politiche di Israele a Gaza, nonché membro dell’African National Congress (ANC), il partito di Mandela, è stato dunque caldamente invitato a lasciare il paese il prima possibile.

Si tratta solo dell’ultimo caso, in ordine di tempo, di tutta una serie di attacchi dell’amministrazione Trump contro il Sudafrica. Lo scorso 3 febbraio Donald Trump ha dichiarato che «Il Sudafrica sta confiscando terre e trattando MOLTO MALE alcuni settori di persone. È una brutta situazione che i media della sinistra radicale non vogliono nemmeno menzionare. Una massiccia violazione dei diritti umani, come minimo, è sotto gli occhi di tutti. (…) taglierò tutti i futuri finanziamenti al Sudafrica finché non sarà completata un’indagine completa su questa situazione!». A fare eco alle parole di Donald Trump sono stati Elon Musk e Peter Thiel: le punte di diamante di quella che è stata definita “Paypal Mafia” da Chris McGreal, storico giornalista del Guardian, un gruppo di oligarchi – tutti fondatori di Paypal – influenzati dalle idee del regime di apartheid sudafricano che oggi attorniano e condizionano Trump.

L’Expropriation Act e gli interessi econmici di Musk in Sudafrica

Cominciamo dall’inizio, o meglio dalla fine. Ad essere criticato da Trump nel suo post sul social Truth è soprattutto una legge proposta dal governo sudafricano, l’Expropriation Act, che propone una soluzione per la drammatica diseguaglianza sociale che ancora affligge il Sudafrica a oltre trent’anni dalla fine dell’apartheid. Ancora oggi oltre il 70% delle terre sudafricane sono nelle mani della piccola minoranza bianca (il 7% della popolazione), mentre milioni di sudafricani neri possiedono solo il 4% delle terre del Paese. Per questo il governo dell’African National Congress (ANC, il partito di Mandela) ha deciso con quest’ultima legge di provare a riequilibrare la situazione, con un piano di redistribuzione della terra alle classi più povere del paese. A queste politiche dell’ANC – introdotte anche per allontanare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle accuse di corruzione – Donald Trump ha risposto non solo tramite i social, ma anche sospendendo il pacchetto di aiuti che USAID garantiva al Sudafrica come contributo alla lotta contro l’HIV. Inoltre, il presidente statunitense ha offerto a tutti gli Afrikaners (sudafricani bianchi) lo status di rifugiati negli USA. Il riferimento è chiaramente all’AfriForum, una organizzazione di estrema destra che nel 2022 aveva raggiunto quasi 300.000 membri. L’ennesima prova, questa, che la politica di Trump sull’immigrazione è innanzitutto una politica di tipo razziale: gli unici nuovi americani benvenuti a Washington sono, oggi, gli immigrati bianchi, meglio se fascisti, e possibilmente ricchi.

A queste azioni di Donald Trump ha replicato il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa, che ha definito quello sudafricano «un popolo resistente. Non ci lasceremo intimidire. Resisteremo come nazione unita. Parleremo con una sola voce in difesa del nostro interesse nazionale, della nostra sovranità e della nostra democrazia costituzionale». Le parole di Ramaphosa sono state anche un attacco alle politiche trumpiane, e ha rivendicato i valori di tolleranza e compassione, di rispetto delle minoranze, affermando che i sudafricani sono «per la condivisione, non per la sopravvivenza del più forte». Peraltro, lo stesso Ramaphosa è una figura piuttosto controversa: riconosciuto come un grande leader dell’ANC e del sindacato dei minatori durante gli anni dell’apartheid, braccio destro di Mandela durante le negoziazioni con i bianchi, Ramaphosa è però anche sotto accusa per malversazioni economiche durante il suo mandato (che dura dal 2018), ad esempio per essere stato scoperto in possesso di circa mezzo milione di dollari statunitensi di provenienza non chiara, che il presidente aveva nascosto dentro un divano.

Come abbiamo visto, una questione di politica interna sudafricana ha invece interessato gli organismi di governo della prima superpotenza mondiale. Non bisogna affatto stupirsi: da anni ormai Elon Musk, l’eminenza grigia dietro a ogni passo di Donald Trump, si è fatto promotore della teoria complottista del “genocidio dei bianchi”. Una teoria senza alcun fondamento scientifico, ma che fa il paio con il vittimismo malriposto del movimento MAGA, i cui aderenti molto spesso fanno riferimento all’idea di “sostituzione etnica” dei bianchi statunitensi (in realtà i bianchi negli USA sono ancora oggi la maggioranza dirigente del Paese).

Le radici della “Paypal Mafia” nel razzismo sudafricano

Ma a cosa è dovuto questo grande interesse della “Paypal Mafia” – Elon Musk in testa – per quanto sta accadendo in Sudafrica? La questione ha radici innanzitutto biografiche. Elon Musk, sudafricano bianco, è cresciuto sotto il regime di apartheid. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando Musk andava alle elementari, i telegiornali censurati terminavano con inno nazionale e bandiera sventolante, mentre sullo schermo scorrevano i nomi dei bianchi uccisi in combattimento contro le milizie dell’ANC. Il presidente del Sudafrica era Balthazar Vorster, afrikaner noto per aver fatto parte negli anni ‘40 dell’Ossewabrandwag, organizzazione apertamente filonazista. Nel Sudafrica di Vorster l’appartenenza razziale era indicata sulle carte d’identità, i lavoratori neri non potevano entrare nei quartieri abitati da bianchi senza un lasciapassare firmato dal datore di lavoro (anche lui bianco), e nelle veldskool, scuole estive per i rampolli bianchi di buona famiglia, ai bambini veniva insegnato a temere i neri e la “cultura progressista occidentale” che aveva appena scardinato la segregazione razziale negli USA. Difficile non vedere in questo l’eco delle posizioni di Musk sulla cosiddetta “cultura woke”.

Insomma, Elon Musk è cresciuto e si è formato in un ambiente intriso di razzismo e di violenza. Non solo: la sua famiglia partecipava attivamente allo sviluppo e alla diffusione di quelle idee. Il nonno di Musk, J. N. Haldeman, era un noto sostenitore delle teorie sulla “cospirazione ebraica internazionale”: nato in Minnesota e cresciuto in Canada, Haldeman era un membro della Technocracy Incorporated, un’organizzazione parafascista che propagandava una società governata in modo dittatoriale da scienziati e ingegneri. Nel 1950, dopo l’instaurazione del regime di apartheid a Pretoria, Halderman si trasferì in Sudafrica con la famiglia, divenendo collaboratore del regime e continuando a diffondere le proprie idee suprematiste. In questo brodo di cultura è nato e cresciuto Elon Musk: nazionalismo cristiano, odio per i neri, e passione per la ricchezza derivante dalla segregazione razziale.

Altri fondatori di Paypal hanno un profilo molto simile, a partire da Peter Thiel. Thiel, nato in Germania Ovest, ha passato la propria infanzia a Swakomund, allora città sudafricana oggi in Namibia, dove suo padre gestiva per conto del governo sudafricano una miniera di uranio. La cittadina era famosa proprio per l’alta concentrazione di ex nazisti che vi si erano insediati dopo essere fuggiti dall’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale. Un reporter del New York Times scrisse negli anni ’70 di essere stato salutato da un benzinaio della zona con il saluto a braccio teso e le parole “sieg heil”: del resto, nella scuola tedesca frequentata da Thiel si festeggiava il compleanno di Hitler, e perfino oggi a Swakomund è possibile acquistare dovunque cimeli e oggettistica nazista, come busti del Fuhrer, croci uncinate, elmetti dell’esercito del Terzo Reich. Peraltro, il regime dell’apartheid sudafricano utilizzò l’uranio di Swakomund per sviluppare la bomba atomica in collaborazione con Israele: spesso venivano inviate da Pretoria a Tel Aviv navi cariche di yellow cake, il risultato della lavorazione dell’uranio con il quale gli israeliani costruirono la loro prima bomba nucleare.

Basterebbero già queste biografie a spiegare il nesso fra le politiche portate avanti dall’entourage trumpiano e il mondo dell’apartheid sudafricano. Tuttavia, gli interessi di Musk e Thiel in Sudafrica sono più profondi, non solo biografici e politici, ma anche economici: Musk vorrebbe estendere l’uso del sistema satellitare Starlink anche al Sudafrica, dopo i grandi successi e gli ottimi profitti ottenuti in Zimbabwe e Botswana. Tuttavia, una legge promossa dall’ANC di Ramaphosa prevede che gli investitori stranieri nel settore delle telecomunicazioni siano tenuti a fornire il 30% del capitale di un progetto a imprese di proprietà di neri per ottenere una licenza: un obbligo che Musk non vuole affatto rispettare.

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