A poco più di 400 chilometri da Los Angeles, California, esiste una valle estremamente arida, incorniciata da imponenti montagne innevate, nel mezzo della quale scorre un fiume dalla scarsa portata. Sierra Nevada da un lato, White Mountains dall’altro, una striscia di territorio brullo nel mezzo: si tratta della Owen’s Valley, territorio ancestrale delle tribù native americane Timbisha e Mono, che oggi è diventata il centro di un movimento che potrebbe costituire un esempio di riappropriazione delle terre su suolo statunitense da parte delle tribù native.
La terra dell’acqua che scorre
I Mono chiamano la Owens Valley Payahǖǖnadǖ, ossia letteralmente “la terra dell’acqua che scorre”. Nella valle un tempo florida i nativi hanno dominato fino agli anni Trenta dell’Ottocento: fino a quel momento l’area era stata giudicata di scarso interesse per il governo statunitense, e solo sparuti gruppi di bianchi si erano insediati lungo il margine meridionale dell’area, allevando bestiame. A partire dal 1833, tuttavia, i coloni iniziarono a sottrarre sempre più terra alle tribù native. La situazione divenne insostenibile nel 1862 quando, complice una carestia che aveva affamato i membri della tribù Mono, scoppiò la cosiddetta guerra della Owens Valley, che si trascinò fino al 1866 con la completa vittoria dei coloni, fiancheggiati dal governo statunitense, e con il confinamento dei nativi in alcune riserve, che esistono ancora oggi. Durante la guerra i militari statunitensi non mancarono di commettere atrocità come il massacro di Keyesville, nel quale alcuni coloni e un distaccamento del Secondo Reggimento di Cavalleria dei Volontari della California fece strage di trentacinque indigeni sulla riva destra del fiume Kern.
Da quel momento i coloni bianchi iniziarono a coltivare la terra che era stata un tempo dei nativi, ma la pace sarebbe durata solo una cinquantina di anni. A inizio Novecento, infatti, la Los Angeles Water Company, azienda privata gestita da Frederick Eaton e William Mulholland, mise gli occhi sull’acqua della valle, fino ad allora utilizzata come pura e semplice risorsa per agricoltura e allevamento. L’occasione si presentò nel 1898, quando Eaton diventò sindaco di Los Angeles e incorporò l’azienda nel Dipartimento per l’Acqua della città. Lo stesso Mulholland venne messo a capo del dipartimento, e a partire dal 1902 iniziò l’esproprio di terre di proprietà dei coloni, che spesso vennero pagati perfino meno del prezzo iniziale fissato dal governo stesso della città. Entro il 1930 il Dipartimento dell’Acqua di Los Angeles aveva acquisito i diritti sul fiume Owens e ne aveva deviato il corso per costruire un acquedotto al servizio della città. A nulla valsero le proteste dei coloni residenti nella zona, che sfociarono perfino in alcuni atti di sabotaggio e in attentati dinamitardi: la resistenza venne spezzata, l’acquedotto riparato e l’ordine ristabilito. La città di Los Angeles terminò l’opera negli anni Settanta, costruendo un secondo acquedotto e condannando la valle alla condizione di estrema aridità che vive ancora oggi, nonostante qualche progetto di recupero del Lago Mono.
Riprendersi la terra (e l’acqua)
La Owens Valley, come abbiamo visto, non è più occupata dai nativi da quasi duecento anni. Fanno eccezione le riserve costituite in loco dopo la guerra, come le comunità indigene di Bishop e di Fort Independence, distanti circa 65 chilometri l’una dall’altra, in un’area complessiva nella quale i nativi sono il 13% della popolazione contro l’1,6% totale della California. In queste comunità nemmeno l’FBI può entrare senza un particolare permesso: il consiglio della comunità gestisce tutto, dalla politica all’economia fino agli affari giudiziari. Come ha dichiarato Carl Dahlberg, presidente della riserva di Fort Independence, “ci prendiamo cura delle nostre strade, ci prendiamo cura della nostra acqua, ci prendiamo cura delle nostre case – lo Stato non fa nulla di tutto questo per noi”.
Proprio a partire da questa posizione i membri della comunità indigena di Fort Independence hanno deciso di riappropriarsi delle terre tolte loro dal governo e dai coloni nell’Ottocento. In base a un accordo con il Governatore democratico della California Gavin Newsom, i nativi di Fort Independence sono rientrati in possesso della riserva di pesca di Mount Whitney, un territorio di oltre 15 ettari nella Contea di Inyo. Si tratta della prima riassegnazione pubblica di un territorio ancestrale ad una tribù nativa mai avvenuto in California. Nelle parole di Carl Dahlberg “l’acqua è parte integrante della cultura, della storia e della struttura sociale dei Paiute. I nostri membri indigeni Paiute si sono stabiliti sulle rive dell’Oak Creek da tempo immemorabile e queste terre sono sempre state sacre per il nostro popolo. La nostra visione del mondo valorizza il delicato ecosistema che ci collega a questa terra che tradizionalmente era un sito di coltivazione per piante autoctone, come il taboose e il nahavita. Questa proprietà è inestricabilmente intrecciata con ciò che siamo come popolo Paiute e speriamo di riportare questa conoscenza e questa storia alla comunità attraverso la conservazione della Riserva di Pesca di Mount Whitney”.
Un processo simile sta avvenendo in questi giorni anche nell’altra riserva indigena della Owens Valley. Alcuni attivisti della comunità nativa di Bishop, infatti, hanno costituito un’ associazione, la Owens Valley Indian Water Commission, che si batte per il recupero della proprietà della terra e delle acque della valle da parte dei nativi. L’associazione ha appena acquistato la tenuta di Three Creeks da Gigi Coyle, imprenditrice che aveva fondato la tenuta venticinque anni fa per fornire a visitatori da tutto il mondo un punto di partenza per le escursioni sulla Sierra Nevada e sulle White Mountains. La signora Coyle avrebbe potuto vendere la proprietà, grande oltre due ettari, per oltre un milione e mezzo di dollari sul mercato, ma ha accettato l’offerta di 900.000 dollari effettuata dall’associazione visti i buoni rapporti costruiti negli anni con la comunità di Bishop e il sostegno alla causa della riappropriazione delle terre da parte dei nativi, la cui storia veniva ampiamente spiegata ai visitatori di Three Creeks anche prima della vendita della proprietà. Sin da quando è stata acquistata dall’associazione, la tenuta di Three Creeks si è popolata di cottages dove vivono molti membri della tribù Mono e Paiute, come Julia Morales, che vive lì con sua figlia e ha dichiarato al New York Times “mi sento di essere esattamente dove dovrei stare”. A partire da questo i membri dell’associazione stanno lavorando per rendere la tenuta un punto di riferimento per l’acquisizione di nuove terre da parte delle tribù della zona.
Land Back Movement
Questo movimento ha una portata ben più ampia della sola Owens Valley e si articola anche al di fuori della California, a livello federale. Negli ultimi anni ci sono stati numerosi casi di gruppi di nativi che hanno comprato la terra che un tempo era dei loro avi, e che tramite questo atto pienamente legale sono riusciti a rientrare in possesso della terra in questione. In molti di questi casi il processo di decolonizzazione delle terre e di riacquisizione delle stesse da parte dei nativi americani si intreccia profondamente con la difesa dell’ambiente: il recupero delle terre passa anche attraverso la salvaguardia di laghi, fiumi, riserve di pesca, montagne e zone boschive.
Nel corso del 2020, durante la campagna per le presidenziali statunitensi, molti attivisti nativi hanno rivendicato la riappropriazione – per ora ancora di là da venire –del monte Rushmore e di tutte le Black Hills. Il Monte Rushmore ospita l’imponente scultura dei presidenti George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt, ma venne costruito in un sito delle Black Hills – considerato sacro dai nativi – da Gutzon Borglum, noto per le sue simpatie suprematiste bianche e la vicinanza al Ku Klux Klan. Nel 1980 la stessa Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto che alle tribù native non venne data un’adeguata ricompensa per la perdita delle Black Hills. Durante le proteste contro Trump venti attivisti vennero arrestati, e questo contribuì a rendere noto a livello globale quello che ancora oggi è chiamato land back movement (movimento di riappropriazione delle terre).
Il land back movement ha avuto anche esiti più felici rispetto agli scontri attorno alle Black Hills. Nel 2018 il territorio ancestrale di Bear Butte, in Sud Dakota, è stato acquistato dalle tribù di Cheyenne del Montana e di Arapaho dell’Oklahoma per 2,3 milioni di dollari. Nel 2023 la tribù dei Mattaponi Superiori è riuscita ad acquisire quasi 350 ettari di territorio attorno al fiume omonimo in Virginia grazie a una partnership con l’Amministrazione Nazionale per l’Oceano e l’Atmosfera (National Oceanic and Atmospheric Administration, NOAA), agenzia governativa statunitense per il monitoraggio atmosferico che considera la tribù un alleato fondamentale per la preservazione del territorio. Nel 2024 la Prairie Band Potawatomi Nation, di lingua algonchina, ha acquistato oltre 518 ettari di terra nell’attuale Contea di DeKalb diventando la prima tribù nativa ufficialmente riconosciuta in Illinois, dopo essere stata illegalmente espulsa da quei territori attorno al 1850.
Fra i più recenti in ordine di tempo, i casi di Mount Whitney e Three Creeks dimostrano che il fenomeno di riacquisizione delle terre da parte dei nativi non solo si sta diffondendo in stati come la California, che finora non avevano mai visto sviluppi di questo genere, ma anche che è possibile per i nativi recuperare e gestire secondo un modello sostenibile – a livello economico ma anche ecologico – le terre nelle quali risiedevano i loro avi, in contesti dove gli indigeni sono ancora una parte rilevante della società. Un processo, questo, che impensierisce i politici favorevoli alle trivellazioni petrolifere e allo sfruttamento delle terre come Donald Trump, che ha dovuto fronteggiare gli attivisti del land back movement in varie occasioni durante la campagna elettorale delle presidenziali nel 2020.
Davide Longo