Nelle prime ore di sabato 26 ottobre Israele ha lanciato l’operazione “Giorni del pentimento”, la risposta combinata ai raid iraniani del 1 ottobre. Per settimane si è temuto che il bombardamento avrebbe potuto segnare l’inizio di una nuova guerra tra Tel Aviv e Teheran, ma ad oggi sembra che il rischio di ulteriore escalation, almeno nell’immediato, sia scongiurato. Le indiscrezioni, confermate dalle dichiarazioni di anonimi funzionari statunitensi al Washington Post e al New York Times, preannunciavano che Joe Biden avesse concordato con Netanyahu una risposta «mirata e circoscritta» al fine di evitare una guerra aperta tra la Repubblica islamica e lo stato ebraico. L’amministrazione statunitense temeva per le ripercussioni che una nuova crisi in Medioriente avrebbe avuto sulle elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre. Donald Trump, infatti, continua a usare l’impegno militare internazionale di Biden (Ucraina, Israele, Taiwan) come arma comunicativa e promette che se verrà eletto gli Usa si disimpegneranno dall’Europa dell’Est per dedicarsi ai problemi interni. Inoltre, se Israele avesse deciso di attaccare (come pure era stato ipotizzato) i pozzi e le raffinerie di petrolio iraniani, il contraccolpo sui prezzi della benzina e dei trasporti sarebbe stato un ulteriore fattore destabilizzante per il voto statunitense.
Dunque Israele, almeno così è stata fatta passare finora, ha rispettato l’accordo con Biden e non ha dato seguito ai propositi della destra estrema di Tel Aviv di «farla finita una volta per tutte con la minaccia iraniana». Ora resta da capire cosa abbia offerto in cambio la Casa Bianca. Alcuni analisti sostengono che la moneta di scambio sia stata una serie di accordi sugli armamenti con i quali il Pentagono si è impegnato per i prossimi 10 anni a sviluppare nuovi sistemi d’arma direttamente sul suolo israeliano, probabilmente in collaborazione con le grandi industrie tecnologiche della Difesa di Tel Aviv, la Elbit Systems di Haifa (produttrice di droni) in primis. In attesa di eventuali conferme e di dati più attendibili, la comunicazione governativa degli ayatollah e dello stato ebraico hanno cristallizzato la propria versione sull’attacco di sabato.
L’attacco
I caccia di Tel Aviv si sarebbero alzati in volo prima dell’inizio del bombardamento per neutralizzare le difese aeree e radar dei gruppi sciiti filo-iraniani presenti in in Siria e Iraq. A quel punto gli F-35 hanno iniziato il raid sugli obiettivi all’interno del territorio iraniano. Sono state colpite delle basi militari intorno alla capitale e nelle province di Khuzestan e Ilam. Diversi «attacchi simultanei» hanno mirato impianti di produzione di missili, postazioni di missili terra-aria e sistemi di difesa aerea. Gli analisti concordano sul fatto che uno degli obiettivi principali di Israele fosse un “componente speciale” usato per alimentare i missili a lungo raggio Khaybar e Qassem
C0sa dice Israele
«L’attacco è stato un successo e tutti i velivoli sono rientrati senza perdite» ha dichiarato Tel Aviv. Per il Wall Street Journal, che cita fonti israeliane, sono stati colpiti «23 siti» entro i confini di Teheran. «La maggior parte degli attacchi» hanno dichiarato i funzionari della difesa di Netanyahu, è stata lanciata dall’esterno dei confini dell’Iran, probabilmente dallo spazio aereo siriano. Il che, tuttavia, implica che non tutti gli attacchi sono arrivati dall’esterno. Potrebbe anche trattarsi soltanto di una mossa mediatica per continuare a insinuare nei vertici iraniani il sospetto che ci siano delle spie all’interno dei pasdaran. Ma in ogni caso, queste dichiarazioni, veritiere o meno, riescono quasi sempre nell’intento. Israele ritiene che «tutti e quattro i sistemi missilistici S-300 iraniani sono stati distrutti durante l’attacco». Quest’ultima notizia, se confermata, sarebbe un durissimo colpo per le difese aeree iraniane che sul sistema S-300 (di produzione russa e fornito da Mosca), basavano la maggior parte del proprio potenziale di deterrenza contro gli attacchi balistici. Inoltre, Tel Aviv sostiene che l’attacco è stato portato a termine «senza interferenze difensive», ovvero senza una risposta efficace da parte della contraerea iraniana. Il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, ha specificato: «ora abbiamo una maggiore manovrabilità aerea sull’Iran».
La versione iraniana
«La montagna ha partorito un topolino» ovvero: i danni sono stati «limitati e con poche conseguenze» grazie alla «tempestività delle difese aeree». Teheran ha confermato la morte di 4 militari e il danneggiamento di diversi sistemi radar, i quali sarebbero già in fase di riparazione. Il portavoce dello Stato maggiore iraniano ha aggiunto che le difese aeree iraniane hanno tracciato e intercettato un numero significativo di missili e hanno impedito «agli aerei nemici di entrare nello spazio aereo del Paese». Il che, tuttavia, appare pretestuoso. Con ogni probabilità Israele ha evitato scientemente di entrare nello spazio aereo di Teheran, sia per dare l’impressione dell’attacco limitato, sia perché non ne aveva reale necessità. Gli S-300, infatti, non sono in grado di colpire i nuovi caccia F-35, che volano a un’altitudine troppo elevata per l’antiquato sistema russo. Diversi video diffusi dalle autorità iraniane (senza data e con molti punti offuscati) mostrano pezzi di missili abbattuti accanto ad alcuni siti militari, ma è difficile verificare indipendentemente se i video si riferiscano direttamente all’attacco di sabato. In ogni caso, si è trattato dell’attacco più imponente subito dall’Iran sul proprio territorio nazionale dai tempi della guerra contro l’Iraq degli anni ’80.
La comunicazione esterna della Repubblica islamica ha insistito sul «legittimo diritto alla autodifesa, senza limiti, secondo la Carta Onu, e l’obbligo a difendere il Paese contro qualsiasi aggressione straniera» e oggi si terrà una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’Onu proprio su richiesta dei pasdaran. Per il momento, l’unica certezza è che l’attacco israeliano è stato un altro capitolo dello scontro dalla distanza tra Israele e l’Iran, ma la risoluzione di questa crisi è ancora lontana.
Sabato Angieri