Diverse voci di professioniste del mondo dello spettacolo, ciascuna con le sua competenze e nel suo momento di vita suonano insieme in un’armonia che si chiama Amleta. L’importanza dei numeri, di aprire lo sguardo, del collettivo. Ecco le loro risposte alle curiosità de L’Atlante:
Amleta, perché?
Alcuni strappi nella storia, come arco cronologico, permettono una chiarezza prima inimmaginabili. Il Me too in America è stato una miccia, si è assistito a un cambiamento enorme, Weinstein, personalità tra le più importanti di Hollywood, è caduto. Il ruolo sociale dell’attrice all’interno di questa ondata è stato fondamentale; quella voce aveva potere e senso anche fuori dagli schermi e dai teatri e, anche se in principio in Italia è stato messo a tacere per una serie di ragioni che attengono a una modalità sistemica di stereotipi e violenze che non ha soltanto a che fare con violenze fisiche o psicologiche, ha seminato l’idea di un cambiamento.
Noi siamo nate in pandemia, momento in cui si era in una condizione di non normalità, ed è stato più facile riconoscere quello che non si voleva più per il proprio futuro. Il fatto di non volerci più confrontare con una violenza autorizzata che c’è nell’ambito del teatro è venuto ben prima di Amleta. Come singole c’eravamo già arrivate, ma il momento in cui abbiamo capito che dovevamo muoverci è stato quando ci siamo incontrate (su Zoom) e ci siamo unite in riflessioni sindacali e sui diritti di chi lavora in questo settore. Con Amleta per la prima volta il lavoro dell’attore e dell’attrice viene considerato analizzato e studiato per portare nuove pratiche da un punto di vista della professionalità e di conseguenza tutte le riflessioni sulla violenza, sulle discriminazioni, sugli stereotipi narrativi o sulle presenze femminili. Siamo un collettivo femminista intersezionale, dunque ci occupiamo dell’aspetto del genere in maniera più ampia possibile ma è anche vero che viviamo in una società complessa di cui dobbiamo tenere conto. Guardiamo alla società attraverso le assi di oppressione che non riguardano soltanto il genere ma anche altre categorie.
Il nome, la sineddoche di Amleto, pensare al personaggio era pensare al tutto del teatro, quindi definirci come professioniste del mondo dello spettacolo dal vivo, poi per l’importanza del linguaggio, che all’inizio risulta un po’ cacofonico, come in tutti i ruoli delle professioniste, avvocata, sindaca e altri, ed è un modo per continuare a porre una domanda non detta: “Che cosa sarebbe successo se il personaggio che definisce il teatro fosse stato una donna invece che un uomo?”. E un po’ di ironia.
Quali sono gli strumenti d’azione di Amleta?
Ci siamo messe a contare, ce l’ha insegnato Michela Murgia. La nostra prima azione pubblica è stata la mappatura, poi la seconda, che ha avuto come partner scientifico l’università di Brescia. Abbiamo presentato una fotografia della situazione: i numeri delle presenze femminili nel campo dello spettacolo dal vivo e attraverso una prima campagna ad adesione spontanea “Apriamo le stanze di Barbablù” sono emersi i numeri rispetto alla violenza nell’arco che va dall’aggressione verbale a quella fisica. Come naturale conseguenza e nato un confronto sulla narrazione e sugli stereotipi nei personaggi. I dati sulle presenze presi in esame arrivano dai principali teatri italiani nazionali e Tric, non a caso ma perché sono quelli che ricevono fondi dal ministero e dal Fus, in cui la presenza quasi esclusiva di direttori e drammaturghi è maschile.
L’azione di Amleta non è appoggiarsi ai numeri come dati morti, ma come azione viva, “Che cosa possiamo fare?”, nel tentativo di proporre nuove buone pratiche e interlocuzioni politiche con i luoghi del potere come il consiglio dello spettacolo.
Oltre, a livello territoriale, la raccolta di testimonianze di casi, anche anonimi, sulle violenze, attraverso la sezione dedicata sul nostro sito “Osservatoria” che apre al dialogo con avvocate e associazioni che si occupano di questo.
Altro strumento è la drammaturgia. Il gruppo che si occupa di questo ha prodotto il Test Amleta che è uno strumento d’analisi delle drammaturgie per vedere come viene raccontata la donna nelle nostre narrazioni, è un test che invita a capire qual è il meccanismo di abitudine in cui siamo cadute nel racconto del femminile e di conseguenza del maschile. Poi il premio di drammaturgia, che per altro quest’anno ha vinto un ragazzo. Il nostro non è un concorso per donne che sanno scrivere, ma la proposta di una diversa possibile narrazione per dare spazio a personaggi femminili tridimensionali che non siano lo stereotipo di loro stesse.
Ciò che vediamo sui nostri palcoscenici o sugli schermi può influenzare le nostre vite. Ci sono studi che confermano che vedere, prevalentemente determinate tipologie di personaggi, ha influenzato la vita di molte donne e di molti uomini. Vederle permette di considerarle possibili e questo è un modo per proporre una ricodifica dell’immaginario.
La proposta di Amleta non è un mansplaining ma un “proviamo a capire insieme”.
I detrattori ci saranno sempre, si manifestano nel cercare l’incoerenza, come diceva Saviano, in chi cerca di migliorare le cose, perché se tu sei incoerente io posso essere la peggiore proposta di me. È per questo che dà fastidio Amleta. La nostra presenza nella società, con tutte le cose su cui confrontarci, ancora da capire e migliorare, pone il problema.
Quella di Amleta è una lotta di potere?
Sì, ma non di potere per la prevaricazione. Quello porterebbe al futuro immaginato da Ragazze elettriche, il romanzo. Non vogliamo togliere ma ridistribuire quel potere di troppo che soffoca, se dobbiamo sostituirci a quello, non se ne esce. Vogliamo collaborare. L’idea di Amleta è essere un pungolo, farci spazio e occupare un posto che ci spetta, senza fare una guerra tra noi e loro, per arrivare all’idea del 50-50 che non è uguaglianza ma equità, avere le stesse possibilità ai blocchi di partenza. Uno dei problemi oggi è che non abbiamo le stesse possibilità.
Quando ci fu il boom del nostro lavoro sulla violenza durante la conferenza stampa a Roma alla sala degli Esteri, Cinzia Spanò, la nostra presidente, chiarì un punto rispetto al nostro lavoro sulla violenza, che dice del nostro modo di muoverci in generale: non facciamo i nomi degli abuser, agiamo dove possibile con le denunce, i nomi escono con le sentenze. Venimmo accusate di essere conniventi, perché non facevamo i nomi dei protagonisti dei casi di violenza.
Cinzia disse che il punto non è tagliare la testa del cattivo di turno (anche se ovviamente ci sono delle cause in corso e alcune persone che devono pagare), bensì cercare di agire dal basso con la consapevolezza, con l’informazione, con strumenti pratici per sovvertire il sistema.
È un tempo di rieducazione, anche, e un tempo per ristabilite che cosa va bene, cosa non va bene e noi vogliamo farlo in maniera ben definita. Oltre che stanare il pericolo vogliamo anche rieducarci collettivamente a creare un mondo, nello specifico il mondo di cui ci occupiamo noi, che è il mondo dello spettacolo, più equo e sostenibile.
Carlotta Rondana