I verdetti ufficiali della Cassazione sono arrivati solamente nella prima decina di ottobre ma le elezioni politiche si sono tenute il 25 settembre. Nel dibattito parlamentare che ha partorito la legge elettorale Rosatellum, prima osannata poi contestata dallo stesso schieramento di cui faceva parte Ettore Rosato (Partito democratico, ora Italia Viva), l’elemento predominante in ogni intervento era quello dell’immediatezza. Un sistema elettorale avrebbe dovuto, stando al dibattito di allora, far sapere subito il vincitore e gli eletti nei due rami del Parlamento. L’ultimo ricalcolo dei voti per determinare l’esattezza della rappresentante eletta al collegio è stato reso noto il 7 ottobre, dodici giorni dopo la tornata elettorale: roba da far riflettere attorno al concetto di immediatezza piuttosto vago, per così dire. Si tratta di Elisabetta Piccolotti, in quota Sinistra italiana (Alleanza Verdi-Sinistra, in coalizione col Partito democratico): il seggio è stato quello di Lecce e non di Bari, su cui pesavano quattordici voti di scarto, come ha poi riportato «Repubblica». Umbra ma eletta a Lecce, Piccolotti “supera” il già deputato Giovanni Paglia che si era visto rieletto nel seggio di Bologna. La rappresentanza geografica, a ben vedere, sembra non essere stata rispettata. Eppure questo fattore, cioè quello del rapporto diretto “eletto-elettore” è stata (ed è) la tesi più consistente di chi sosteneva la giustezza della legge elettorale che prevedeva la divisione dei collegi in unità molto piccole in cui si potessero sfidare i singoli candidati della lista o della coalizione.
La legge elettorale perfetta, semplicemente, non esiste
C’è da dire che di dibattiti attorno alla legge elettorale, o alle leggi elettorali, il sistema politico istituzionale ne ha attraversati moltissimi: ad ogni legislatura che nasce emerge prorompente la questione della legge elettorale da sistemare, o da promulgare ex novo, al fine di cambiare quella vecchia, che evidentemente non va (più) bene, per rendere “più governabile” il paese. Nessun governo ha, per la verità, mai strutturato una legge elettorale che assolvesse al compito sopra citato. C’è da chiarirsi su una questione, certamente ridondante alla ripetizione, ma che venne ribadita nel 2014 in un’intervista da Fulco Lanchester, ordinario di Diritto Costituzionale preso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma: «I sistemi elettorali aiutano la stabilizzazione. Essi non possono, però, produrre stabilizzazioni assolute: chi ci racconta che con un sistema elettorale di un certo tipo si perviene immediatamente alla stabilità, è paragonabile al venditore di lozioni per la crescita dei capelli. E le parla un calvo». Ciclicamente, il dibattito politico istituzionale ruota attorno a plurimi interessi di natura personale e/o partitica al fine di una ripetizione ab aeterno dello status quo, pur annunciando di voler cambiare ogni virgola, al netto delle intromissioni della Corte Costituzionale in questo o quel caso.
Uninominale, la battaglia del mondo liberale-radical
Una delle più longeve rivendicazioni dell’area che comprende le organizzazioni liberali e radicali, nonché della destra più conservatrice, è proprio quella dell’attuazione di una legge elettorale pienamente maggioritaria e con collegi uninominali (piccoli o grandi che siano). Stiamo parlando di organizzazioni che compongono, ad oggi, la totalità del Parlamento italiano, nonché un buon 70% delle formazioni politiche che partecipano regolarmente alle elezioni di ogni ordine e grado.
Marco Cappato, esponente radicale e promotore della lista “Referendum è democrazia” (poi esclusa un giorno prima delle votazioni), ha sempre sostenuto un modello elettorale: «[…] che nei sondaggi d’opinione è il più popolare [2014] e che i Radicali propongono da sempre: maggioritario secco ad un turno con collegi uninominali, sistema federalista e presidenzialista».
Non stupisce che il blocco liberal-radicale, variamente collocato (lista Cappato, +Europa, Radicali italiani, PR[NTT], iscritti individuali o doppie tessere), sia in linea con quanto espresso più volte da uno o più soggetti politici che compongono la coalizione di centrodestra. Ad esempio, il 30 gennaio 2020 Giorgia Meloni sosteneva: «Chiunque oggi dovesse proporre un sistema elettorale proporzionale, si assumerebbe di fronte alla storia la responsabilità di essere un nemico dell’Italia. Non esiste una legge elettorale che possa aiutare questa nazione che non preveda un premio di governabilità, un premio di maggioranza. Il popolo deve poter decidere». Nei fatti la posizione non è cambiata e, anzi, è stata ribadita più volte nel corso degli anni assieme all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, per cui Fd’I ha anche avviato raccolte firme in più riprese.
Ma procediamo con ordine.
‘First past the post’
Al momento della discussione in Parlamento e della successiva strutturazione della legge Rosato (detta Rosatellum) tutt’ora in vigore, si invocava a gran voce il modello anglosassone per l’elezione di Camera e Senato. Il sistema anglosassone, denominato first past the post, rappresenta un sistema uninominale maggioritario secco. La ‘posta in palio’ del vincitore delle elezioni nel Regno Unito è rappresentata dai 650 seggi nella Camera dei Comuni: dal momento che vige un sistema elettorale uninominale, ogni circoscrizione delle 650 in oggetto è divisa in collegi e ciascun elettore elegge il proprio deputato da mandare alla Camera dei Comuni. Tale meccanismo impone che il partito vincente debba ottenere 326 seggi per raggiungere la maggioranza in Parlamento e le circoscrizioni elettorali sono così divise: 523 in Inghilterra, 59 in Scozia, 40 in Galles, 18 in Irlanda del Nord; non esistono soglie di sbarramento, in ogni collegio i partiti presentano un solo candidato e viene eletto solo colui/colei che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti.
Già a partire dalle elezioni 2015 la ricercatrice Catlin Milazzo evidenziò le crepe e le aporìe del sistema elettorale britannico riguardo i seggi conquistati da UKIP (United Kingdom indipendent, il partito di Nigel Farage). Imperfezioni, c’è da dire, presenti a partire dalle elezioni del 2010 se poste in confronto con quelle del 2015 in cui il partito Conservatore di David Cameron, nonostante guadagnasse poco più dello 0,8%, si vide aumentare i seggi da 307 a 331 mentre i laburisti, sebbene avessero incrementato la propria percentuale di uno 0,4%, si videro diminuire le unità di rappresentanti da 258 a 232.
Uninominale all’italiana
La legge elettorale tutt’ora in vigore in Italia rappresenta un ibrido tra proporzionale (con collegi plurinominali molto piccoli ma “blocccati”) e maggioritario (con collegi uninominali). I sostenitori della legge maggioritaria e del sistema uninominale utilizzano tale argomentazione a sostegno della propria tesi: il rapporto elettore-rappresentante tende ad assottigliarsi. Ovverosia: il Parlamentare eletto sarà espressione di quella territorialità perché appartenente proprio a quella circoscrizione in cui fa attività politica, ci è nato, svolge (o ha svolto) la sua attività professionale o altri fattori. Tutto avrebbe dovuto svolgersi secondo uno schema ben preciso e consegnare il verdetto elettorale immediatamente, o quasi. Non è andata proprio così.
Rapporto eletto-elettore
L’attuale legge elettorale non prevede l’impossibilità di raddoppiare le candidature nei collegi plurinominali. Dunque, ad esempio alla Camera dei Deputati, si sono create situazioni da leggi elettorali già viste (Calderoli – Porcellum) e giudicate antidemocratiche proprio da chi ha proposto l’attuale sistema, per cui, ad esempio:
1. Giorgia Meloni risulta eletta in cinque collegi diversi (Sicilia 1, Sicilia 2, Lombardia 1, Puglia e Lazio 1);
2. Giuseppe Conte in Lombardia 1 in entrambi i plurinominali P01 e P02, Sicilia 1, Puglia, Campania 1;
3. Enrico Letta in Lombardia 1 e Veneto 2;
4. Antonio Tajani in Campania 1 in entrambi i plurinominali e in Campania 2.
Al Senato della Repubblica la questione non cambia:
1. Silvio Berlusconi è eletto nel plurinominale di Campania (P01), del Lazio (P02), del Piemonte (P02), della Lombardia (P02);
2. Carlo Calenda in Veneto (P02), Sicilia (P01), Lazio (P01);
3. Matteo Renzi in Lombardia (P02), Campania (P01), Toscana (P01).
Tutto questo da’ vita a circostanze piuttosto rocambolesche, per utilizzare un termine relativo alla cronaca calcistica, per cui anche ai collegi uninominali si preferisce puntare sul cosiddetto “candidato forte”, magari in un collegio in cui storicamente il partito x è andato sempre bene: Pier Ferdinando Casini eletto per la seconda volta a Bologna con il Partito Democratico ne è un chiarissimo esempio.
Andando, tecnicamente, a destrutturare la tesi più forte del divario meno imponente tra rappresentante ed elettore.
E di esempi, in questa legislatura con il numero dimezzato di rappresentanti a seguito del referendum promosso dal Movimento 5 Stelle, ce ne sono moltissimi, basta citarne solo un pugno:
1. il presidente della Lazio Lotito è stato eletto in Molise, sebbene egli sia laziale non solo di fede calcistica ma di appartenenza territoriale;
2. Lorenzo Cesa, segretario dell’UDC anch’egli eletto alla Camera nel collegio uninominale del Molise, sebbene sia nato ad Arcinazzo Romano;
3. Angelo Bonelli (Alleanza Verdi-Sinistra), nato a Roma e vissuto nel litorale laziale prima del trasferimento in Trentino èè stato eletto a Imola;
4. Marta Fascina, la compagna (o non-sposa a seguito del non-matrimonio) di Berlusconi, eletta in Sicilia e nel 2018 in Campania, sebbene sia nata a Melito Porto Salvo (Reggio Calabria);
5. Riccardo Magi, Radicali italiani/+Europa, romano di nascita e in cui ha svolto la maggior parte della sua attività politica, è stato eletto a Torino;
6. Aboubacar Sumahoro (Alleanza Verdi-Sinistra) è stato eletto nel plurinominale della Lombardia a seguito dello scatto del seggio, sebbene fosse stato candidato all’uninominale di Modena, quando la sua attività sindacale è da sempre rivolta al bracciantato del Mezzogiorno d’Italia, con particolare riguardo alla campagna pugliese in cui pure era candidato ma come secondo al plurinominale di Bari.
Le ultime modifiche e gli ultimi riconteggi (chiesti anche da +Europa per verificare il perché del meccanismo della ripartizione dei voti all’interno della coalizione non pare abbia funzionato, stando ai vertici del partito liberal-radicale) nel corso delle settimane post elettorali, hanno consegnato una situazione di estrema fluidità e di instabilità. Ovvero l’esatto opposto di quello che si voleva creare.
Non pare, tuttavia, che il nuovo governo intenda porre mano alla questione elettorale se non per modificare l’assetto costituzionale e arrivare all’ottativo meloniano dell’elezione diretta del Capo dello Stato. In quel caso, il dibattito attorno al sistema elettorale di cui dotarsi passerebbe evidentemente in secondo piano.